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Ci sono 14 punti in «Amici di Dio» il cui argomento è Apostolato → carità.

Nel meditare queste parole di Cristo: Pro eis ego sanctifico me ipsum, ut sint et ipsi sanctificati in veritate, per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità (Gv 17, 19), percepiamo con chiarezza il nostro unico fine: la santificazione, cioè il dovere di essere santi per santificare. Nel contempo, come una sottile tentazione, può venirci in mente che solo in pochi siamo decisi a rispondere alla chiamata divina, e per di più ci riconosciamo strumenti con ben scarse attitudini. È vero, siamo in pochi in confronto al resto dell'umanità, e personalmente non valiamo nulla; ma l'affermazione del Maestro risuona con tutta la sua autorità: il cristiano è luce, sale, lievito del mondo, e un po' di lievito fa fermentare tutta la pasta (Gal 5, 9). Proprio per questo ho sempre predicato che ci interessano tutte le anime — cento su cento —, senza discriminazione alcuna, con la certezza che Cristo ci ha redenti tutti e vuole servirsi di noi pochi, nonostante la nostra personale nullità, per diffondere la salvezza.

Un discepolo di Cristo non tratterà mai male nessuno: chiamerà errore l'errore, ma correggerà con affetto chi sta sbagliando: altrimenti, non potrà aiutare, non potrà santificare. Bisogna saper vivere con gli altri, bisogna capire, bisogna scusare, bisogna esercitare la fraternità; e, secondo il consiglio di san Giovanni della Croce, in ogni istante bisogna mettere amore dove non c'è amore, per raccogliere amore (cfr SAN GIOVANNI DELLA CROCE, Lettera a Maria de la Encarnación, 6-VII-1591), anche nelle circostanze apparentemente insignificanti offerte dal lavoro professionale e dalle relazioni famigliari e sociali. Pertanto, tu e io metteremo a frutto anche le occasioni più banali che ci si presentano, per santificarle, per santificarci e per santificare coloro che condividono i nostri stessi impegni quotidiani, sentendo nella nostra vita il peso dolce e attraente della corredenzione.

Si avvicina al fico: si avvicina a te e a me. Gesù ha fame e sete di anime. Sitio! Ho sete!, esclama dalla Croce (Gv 19, 28). Sete di noi, del nostro amore, delle nostre anime e di tutte le anime che dobbiamo condurre a Lui, lungo la via della Croce, che è la via dell'immortalità e della gloria del Cielo.

Si accostò al fico, ma vi trovò soltanto foglie (Mt 21, 19): una vergogna! È così anche nella nostra vita? Accade anche a noi, tristemente, che facciano difetto la fede e la vibrazione dell'umiltà, e non appaiano né sacrifici né opere? Che del cristiano ci sia solo la facciata ma non le opere? È da sgomentarsene, perché Gesù comanda: «Da te non nasca più frutto in eterno». E, nello stesso istante, il fico seccò (Mt 21, 19). Questo passo della Sacra Scrittura ci rattrista, ma al tempo stesso ci incoraggia a ravvivare la fede, a vivere secondo la fede, affinché Cristo raccolga sempre frutto da noi.

Non lasciamoci ingannare. Il Signore non dipende mai da quello che noi umanamente elaboriamo; per Lui i progetti più ambiziosi sono giochi di bambini. Egli vuole anime, vuole amore; vuole che tutti gli uomini giungano a godere in eterno del suo Regno. Dobbiamo lavorare molto sulla terra; e dobbiamo lavorare bene, perché è proprio il lavoro quotidiano che va santificato. Pertanto, non dimentichiamo mai di compierlo per Iddio. Se lo realizzassimo per noi stessi, per orgoglio, produrremmo soltanto fogliame: né Dio né gli uomini potrebbero raccogliere da un albero tanto frondoso un po' di dolcezza.

Confuso tra la folla, uno di quei periti della Legge che non riuscivano più a riconoscere gli insegnamenti che erano stati rivelati a Mosè, poiché loro stessi li avevano ingarbugliati in una sterile casistica, ha rivolto una domanda al Signore. Gesù schiude le sue labbra divine per rispondere al dottore della Legge, e gli dice lentamente, con la sicura certezza che viene da una profonda esperienza personale: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti (Mt 22, 37-40).

Osservate adesso un'altra scena: il Maestro è riunito con i suoi discepoli, nell'intimità del Cenacolo. Mentre si avvicina il momento della Passione, il Cuore di Cristo, circondato da coloro che ama, manda ineffabili bagliori di fiamma: Vi do un comandamento nuovo — confida ai suoi —: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri (Gv 13, 34-35).

Per giungere vicino al Signore attraverso le pagine del santo Vangelo, raccomando sempre di sforzarvi di 'entrare' nella scena in modo da parteciparvi come un personaggio tra gli altri. In tal modo — molte anime semplici e normali, di mia conoscenza, lo fanno con naturalezza — vi immedesimerete con Maria, che pende dalle parole di Gesù, oppure, come Marta, avrete il coraggio di esporgli con sincerità le vostre inquietudini, anche le più minute (cfr Lc 10, 39-40).

Signore, perché dici "nuovo" questo comandamento? Abbiamo appena ascoltato che l'amore verso il prossimo era prescritto già nell'Antico Testamento, e certamente ricorderete che Gesù, all'inizio della vita pubblica, aveva ampliato con divina generosità, queste esigenze: Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori (Mt 5, 43-44).

Signore, consentici di insistere: perché ancora chiami "nuovo" questo precetto? Quella notte, poche ore prima di immolarti sulla Croce, durante quell'indimenticabile colloquio con coloro che — nonostante le loro miserie e debolezze personali, così simili alle nostre — ti hanno accompagnato fino a Gerusalemme, Tu ci hai rivelato la misura insospettata della carità: Come io vi ho amato. Come ti capivano bene gli Apostoli, che erano stati testimoni del tuo amore insondabile! L'annuncio e l'esempio del Maestro sono chiari, precisi. Ha sottolineato con le opere la dottrina. Tuttavia, molte volte ho pensato che, dopo venti secoli, il comandamento continua ad essere "nuovo", perché ben pochi sono gli uomini che si sono presi cura di metterlo in pratica; gli altri, la maggioranza, hanno preferito e preferiscono non darsi per intesi. Con egoismo esasperato giungono a concludere: «Perché tante complicazioni? È già troppo se riesco a badare a me stesso».

Questo atteggiamento è inammissibile per i cristiani. Se professiamo la stessa fede, se davvero vogliamo ricalcare le nitide impronte lasciate sulla terra dai passi di Cristo, non dobbiamo accontentarci di evitare agli altri il male che non auguriamo a noi stessi. Questo è già molto, ma è ancora poco, se capiamo che la misura del nostro amore è definita dal comportamento di Gesù. Egli, inoltre, non ci propone questa norma di condotta come una meta lontana, come il coronamento di tutta una vita di lotta. È — deve esserlo, insisto, perché tu lo traduca in propositi concreti — il punto di partenza, perché Gesù nostro Signore lo addita come contrassegno: Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli.

Gesù Cristo, Signore nostro, si è incarnato e ha assunto la nostra natura per proporsi all'umanità come modello di tutte le virtù. Imparate da me — è l'invito — che sono mite e umile di cuore (Mt 11, 29).

In seguito, quando spiega agli Apostoli il segno da cui saranno riconosciuti come cristiani, non dice: «Perché siete umili». Egli è la purezza più sublime, l'Agnello immacolato. Nulla poteva macchiare la sua santità perfetta, senza ombra (cfr Gv 8, 46). Eppure non dice: «Capiranno che siete miei discepoli perché siete casti e puri». Ha camminato per il mondo nel più completo distacco dai beni della terra. Egli era il Creatore e il Signore dell'universo, e non aveva neppure dove posare il capo (cfr Mt 8, 20). Ma non dice: «Vi riconosceranno come miei, perché non vi siete attaccati alle ricchezze». Rimane per quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, digiunando rigorosamente (cfr Mt 4, 2), prima di dedicarsi alla predicazione del Vangelo. E, ancora, non dice ai suoi: «Capiranno che servite il Signore perché non siete mangioni né beoni». La caratteristica distintiva degli Apostoli, dei veri cristiani di ogni tempo, l'abbiamo ascoltata: Da questo — proprio da questo — tuttisapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri (Gv 13, 35).

Trovo perfettamente logico che i figli di Dio siano sempre rimasti colpiti — anche tu e io lo siamo, in questo momento — da quel modo di insistere del Maestro. Il Signore non stabilisce, come prova della fedeltà dei suoi discepoli, i prodigi e i miracoli strepitosi, benché abbia loro conferito il potere di compierli, nello Spirito Santo. Che cosa dice loro? Capiranno che siete miei discepoli se vi amerete reciprocamente (SAN BASILIO, Regulae fusius tractatae, 3, 1 [PG 31, 918]).

Non odiare il nemico, non rendere male per male, rinunciare alla vendetta, perdonare senza rancore, era considerato a quel tempo — ma anche oggi, non illudiamoci — un comportamento insolito, troppo eroico, fuori dell'ordinario. La meschinità delle creature giunge a tali estremi. Gesù Cristo, che è venuto a salvare tutte le genti e vuole rendere partecipi i cristiani della sua opera di redenzione, ha voluto insegnare ai suoi discepoli — a te e a me — una carità grande, sincera, più nobile e preziosa: dobbiamo amarci reciprocamente come Cristo ama ciascuno di noi. Soltanto così, imitando — per quanto consentito dalla nostra rozzezza personale — il comportamento divino, riusciremo ad aprire il nostro cuore a tutti gli uomini, ad amare in modo più alto, totalmente nuovo.

I primi cristiani hanno saputo mettere in pratica molto bene l'ardore di questa carità, che superava di gran lunga le vette della semplice solidarietà umana, o della benignità di carattere. Si amavano fra di loro, dolcemente e con fortezza, a partire dal Cuore di Cristo. Scrivendo nel secondo secolo, Tertulliano ha riportato che i pagani, commossi nel vedere il comportamento dei cristiani di allora, pieno di attrattive soprannaturali e umane, ripetevano: Guardate come si amano! (TERTULLIANO, Apologeticus, 39 [PL 1, 471]).

Se ti accorgi che tu, adesso o in tante altre occasioni della giornata, non meriti questa lode; che il tuo cuore non corrisponde come dovrebbe alle richieste divine, renditi conto che è giunto il momento di rettificare. Accogli l'invito di san Paolo: Operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede (Gal 6, 10), verso coloro che appartengono alla nostra stessa famiglia, al Corpo Mistico di Cristo.

L'apostolato principale che noi cristiani dobbiamo svolgere nel mondo, la migliore testimonianza di fede, è contribuire a far sì che all'interno della Chiesa si respiri il clima della carità autentica. Se non ci amiamo davvero, se ci sono conflitti, calunnie, discordie, chi si sentirà attratto da coloro che affermano di predicare la Buona Novella del Vangelo?

È molto facile, molto di moda, proclamare a parole il proprio amore per tutti gli uomini, credenti e non credenti. Ma se chi fa queste affermazioni tratta male i suoi fratelli nella fede, temo che le sue parole non siano altro che chiacchiere ipocrite. Invece, quando amiamo nel Cuore di Cristo coloro che con noi sono figli dello stesso Padre, consociati nella stessa fede e coeredi della stessa speranza (MINUCIO FELICE, Octavius, 31 [PL 3, 338]), la nostra anima si dilata e arde del desiderio che tutti si avvicinino al Signore.

Vi sto rammentando le esigenze della carità, e forse qualcuno di voi può aver pensato che nelle mie ultime parole manchi proprio questa virtù. Non è affatto vero. Vi assicuro che, con santo orgoglio e senza falsi ecumenismi, mi sono sentito pieno di gioia quando nel Concilio Vaticano II si delineava con rinnovata intensità la preoccupazione di portare la Verità a coloro che seguono strade diverse dall'unica Via, quella di Cristo, perché l'ansia per la salvezza di tutta l'umanità mi consuma.

Sì, è stata molto grande la mia gioia, anche perché vedevo nuovamente confermato un apostolato tanto amato dall'Opus Dei, l'apostolato ad fidem, che non respinge nessuno, e ammette i non cristiani, gli atei, i pagani, a partecipare, per quanto possibile, dei benefici spirituali della nostra Istituzione: tutto questo ha una lunga storia, di dolore e di lealtà, che vi ho raccontato altre volte. Per questo vi ripeto, senza timore, che ritengo ipocrita, bugiardo, lo zelo che induce a trattar bene i lontani, mentre si calpestano o si disprezzano coloro che vivono la nostra stessa fede. E non credo neppure al tuo interessamento per l'ultimo povero della strada, se maltratti i tuoi famigliari; se resti indifferente alle loro gioie, ai loro affanni e ai loro dolori; se non ti sforzi di capirli e di sorvolare sui loro difetti, purché non siano di offesa al Signore.

Non è commovente che l'apostolo Giovanni, ormai anziano, utilizzi la maggior parte delle sue lettere per raccomandarci di comportarci secondo questa dottrina divina? L'amore che deve unire i cristiani fra di loro nasce da Dio, che è Amore. Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è Amore (1 Gv 4, 7-8). Si sofferma sulla carità fraterna, perché Cristo ci ha resi figli di Dio: Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! (1 Gv 3, 1).

E, mentre scuote con forza le nostre coscienze, per renderle più sensibili alla grazia divina, insiste sulla prova meravigliosa dell'amore del Padre per gli uomini: In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo perché noi avessimo la vita per lui (1 Gv 4, 9). Il Signore ha preso l'iniziativa, ci è venuto incontro. Ci ha dato questo esempio, affinché con Lui ci applichiamo al servizio del prossimo, affinché — mi piace ripeterlo — stendiamo generosamente il nostro cuore sul pavimento, per consentire agli altri di camminare sul soffice, e risulti loro più gradevole la lotta ascetica. Dobbiamo comportarci così perché siamo stati resi figli del medesimo Padre, di un Padre che non ha esitato a darci il suo Figlio amatissimo.

Nel dire 'prossimo' — spiega san Leone Magno — non bisogna intendere soltanto coloro che sono legati a noi da vincoli di amicizia o di parentela, ma tutti gli uomini assolutamente, con i quali abbiamo comunanza di natura… Uno solo è infatti l'Autore che ci ha plasmato, uno solo il Creatore che ci ha vivificato, e tutti quanti abbiamo e godiamo lo stesso cielo e la stessa aria, gli stessi giorni e le stesse notti. Benché ci siano buoni e cattivi, giusti ed ingiusti, tuttavia Dio è ugualmente generoso e benigno con tutti (SAN LEONE MAGNO, Sermo XII, 2 [PL 54, 170]).

Noi, figli di Dio, ci forgiamo nella pratica del comandamento nuovo, impariamo nella Chiesa a servire e a non farci servire (cfr Mt 20, 28), e siamo in grado di amare l'umanità in modo nuovo, che tutti scopriranno essere frutto della grazia di Cristo. Il nostro amore non va confuso con il sentimentalismo, neppure con il mero cameratismo, e nemmeno con il desiderio poco chiaro di aiutare gli altri per dimostrare a noi stessi la nostra superiorità. È saper convivere col prossimo, venerare — insisto — l'immagine di Dio insita in ogni uomo, facendo in modo che anche lui la contempli, e così sappia dirigersi a Cristo.

Universalità della carità significa, pertanto, universalità dell'apostolato; capacità nostra di trasformare in opere, e sul serio, il grandioso impegno di Dio, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità (1 Tm 2, 4).

Se si devono amare anche i nemici — intendo coloro che ci considerano loro nemici: per quanto mi riguarda, non mi sento nemico di niente e di nessuno — a maggior ragione bisognerà amare coloro che sono semplicemente lontani, coloro che ci sono meno simpatici, coloro che, per motivi di lingua, di cultura, di educazione, sembrano il mio o il tuo opposto.

Di che amore si tratta? La Sacra Scrittura parla di dilectio, per far capire bene che non si riferisce soltanto all'affetto sensibile. Dilectio esprime piuttosto una determinazione forte della volontà. Dilectio, infatti, deriva da electio, scelta. Aggiungerei che amare da cristiani significa volere voler bene, decidersi in Cristo a cercare il bene delle anime senza discriminazioni di sorta, procurando loro, innanzitutto, la cosa migliore: portarli alla conoscenza di Cristo, innamorarli di Lui.

Il Signore ci sprona: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori (Mt 5, 44). Possiamo non sentirci umanamente attratti dalle persone che ci respingerebbero se li avvicinassimo. Ma Gesù esige da noi che non restituiamo male per male; che non lasciamo cadere le occasioni di servire gli altri di tutto cuore, anche se ci costa; che non cessiamo mai di tenerli presenti nelle nostre preghiere. La dilectio, la carità, acquista sfumature ancora più toccanti quando si riferisce ai nostri fratelli di fede, e specialmente a coloro che, per disposizione divina, lavorano più vicino a noi: i genitori, il marito o la moglie, i figli e i fratelli, gli amici e i colleghi, i vicini. Se non ci fosse questo affetto, questo amore umano nobile e pulito, ordinato a Dio e fondato in Lui, non ci sarebbe carità.

Una delle prime manifestazioni concrete della carità consiste nel dischiudere all'anima i cammini dell'umiltà. Se riteniamo sinceramente di essere nulla; se ci rendiamo conto che, senza l'aiuto divino, la più debole, la più inconsistente delle creature sarebbe migliore di noi; se ci vediamo capaci di tutti gli errori e di tutti gli orrori; se sappiamo di essere peccatori anche se combattiamo con impegno per prendere le distanze da tante infedeltà…, come possiamo pensar male degli altri, come possiamo alimentare nel cuore il fanatismo, l'intolleranza, l'alterigia?

L'umiltà ci conduce quasi per mano a quel modo di trattare il prossimo, che è il migliore di tutti: comprendere tutti, saper convivere con tutti, scusare tutti, non creare divisioni né barriere; comportarsi — sempre! — da strumenti di unità. Non invano in fondo all'uomo esiste un forte anelito alla pace, all'unità con i propri simili, al reciproco rispetto dei diritti della persona, in una prospettiva che conduce alla fraternità. È un riflesso di ciò che vi è di più prezioso nella condizione umana: se tutti siamo figli di Dio, la fraternità non si riduce a luogo comune o a ideale illusorio: risplende come meta difficile, ma reale.

Di fronte ai cinici, agli scettici, ai disamorati, a tutti coloro che hanno fatto della loro viltà un abito mentale, noi cristiani dobbiamo dimostrare che è possibile voler bene. Forse l'amore cristiano dovrà superare molte difficoltà, perché l'uomo è stato creato libero, ed è in suo potere opporsi inutilmente e amaramente a Dio: ma il comportamento cristiano è possibile e reale, perché nasce come conseguenza necessaria dell'amore di Dio per noi, e di noi per Dio. Se tu e io lo vogliamo, anche Gesù lo vuole. Allora capiremo in tutta la loro profondità e in tutta la loro fecondità il dolore, il sacrificio, la dedizione disinteressata nella vita quotidiana.

Peccherebbe di ingenuità chi pensasse che le esigenze della carità cristiana siano facili da compiere. Ben diverso è il panorama che ci si presenta se consideriamo il comportamento abituale della società e, purtroppo, se guardiamo anche all'interno della Chiesa. Se l'amore non costringesse a tacere, tutti potrebbero fare lunghi elenchi di divisioni, di conflitti, di ingiustizie, di mormorazioni, di insidie. Dobbiamo ammetterlo con semplicità, per cercare di applicare il rimedio opportuno, che deve tradursi nello sforzo personale di non ferire, di non trattar male, di correggere senza stroncare.

Non sono cose nuove. Pochi anni dopo l'Ascensione di Cristo in Cielo, quando quasi tutti gli Apostoli percorrevano ancora le vie del mondo e dappertutto regnava uno splendido fervore di fede e di speranza, già allora molti incominciavano a deviare, a non vivere la carità del Maestro.

Dal momento che c'è tra voi invidia e discordia — scrive san Paolo ai Corinzi — non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana? Quando uno dice: «Io sono di Paolo», e un altro: «Io sono di Apollo», non vi dimostrate semplicemente uomini (1 Cor 3, 3-4) che non capiscono che Cristo è venuto per superare tutte queste divisioni? Ma che cosa è mai Apollo? Cosa è Paolo? Ministri attraverso i quali siete venuti alla fede e ciascuno secondo che il Signore gli ha concesso (1 Cor 3, 4-5).

L'Apostolo non respinge la diversità: ciascuno ha ricevuto da Dio il suo proprio dono, chi in un modo, chi nell'altro (cfr 1 Cor 7, 7). Ma queste differenze devono essere poste al servizio del bene della Chiesa. In questo istante mi sento spinto a chiedere al Signore — unitevi, se volete, a questa mia preghiera — di non permettere che nella sua Chiesa la mancanza d'amore sparga zizzania nelle anime. La carità è il sale dell'apostolato dei cristiani: se diventa insipido, come potremo presentarci al cospetto del mondo e spiegare, a testa alta, che qui c'è Cristo?

Pertanto, vi ripeto con san Paolo: Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova (1 Cor 13, 1-3).

Di fronte a queste parole dell'Apostolo delle genti, non manca chi fa come quei discepoli di Cristo i quali, dopo che il Signore aveva annunciato loro il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, commentavano: Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo? (Gv 6, 60). Sì, è duro. Perché la carità descritta dall'Apostolo non si limita alla filantropia, all'umanitarismo, alla naturale commiserazione delle sofferenze altrui: esige l'esercizio della virtù teologale dell'amore verso Dio e dell'amore, per Dio, verso il prossimo. Per questo, la carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà… Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità (1 Cor 13, 8-13).