Elenco di punti

Ci sono 2 punti in «Colloqui con monsignor Escrivá» il cui argomento è Lavoro → e spirito di povertà.

Da circostanze di indole molto diversa, come anche da esortazioni e insegnamenti della Chiesa, è nata e si è sviluppata una profonda sensibilità sociale. Si fa un gran parlare della virtù della povertà come testimonianza. Come può viverla una donna di casa, che deve offrire un giusto benessere alla propria famiglia?

Nella Sacra Scrittura, proprio come uno dei segni che manifestano l'arrivo del Regno di Dio, leggiamo che "il Vangelo è annunciato ai poveri" (Mt 11, 6). Non ha lo spirito di Cristo chi non ama e non vive la virtù della povertà; e ciò vale per tutti, tanto per l'anacoreta che si ritira nel deserto, quanto per il comune cristiano che vive nel mezzo della società umana, fornito delle risorse di questo mondo o privo di molte di esse.

Su questo tema vorrei soffermarmi un po', perché oggi non sempre si predica la povertà in modo che il suo messaggio giunga a farsi vita. Con buona volontà senza dubbio, ma senza aver afferrato a fondo il senso dei tempi, c'è chi predica una povertà che è frutto di mera elucubrazione intellettuale, che porta con sé vistosi segni esteriori e al tempo stesso enormi deficienze interiori, quando non anche esterne.

Facendo eco a un'espressione del profeta Isaia — discite benefacere (1, 17) — mi piace dire che "le virtù bisogna imparare a viverle", e questo vale forse in modo speciale per la povertà. Bisogna imparare a viverla perché non si riduca a un ideale sul quale si può scrivere molto, ma che nessuno mette seriamente in pratica. Occorre far vedere che la povertà è un invito che il Signore rivolge a ogni cristiano, e che pertanto è una chiamata concreta che deve dar forma a tutta la vita dell'umanità.

Povertà non è miseria, e meno che mai sporcizia. La prima ragione è che ciò che definisce il cristiano non sono le condizioni esterne della sua vita, ma piuttosto gli atteggiamenti del suo cuore. Ma poi vi è una seconda ragione (e qui tocchiamo un punto assai importante, dal quale dipende un'esatta comprensione della vocazione laicale): ed è che la povertà non viene definita dalla pura e semplice rinuncia. In certe occasioni particolari, la testimonianza di povertà richiesta ai cristiani può essere l'abbandono di tutto, la contestazione di un ambiente che non ha orizzonti aldilà del benessere materiale, proclamando così, con un gesto spettacolare, che nessuna cosa è buona se viene preferita a Dio. Ma è forse questa la testimonianza che oggi la Chiesa chiede a tutti? Non è vero forse che essa esige anche una testimonianza esplicita di amore al mondo, di solidarietà con gli uomini?

A volte, chi riflette sulla povertà cristiana prende come punto di riferimento principale i religiosi, cui è proprio dare sempre e ovunque una testimonianza pubblica, ufficiale; e così si corre il rischio di non scorgere il carattere specifico di una testimonianza laicale, che viene data dall'interno, con la semplicità delle cose di tutti i giorni.

Un cristiano qualsiasi deve rendere compatibili, nella propria vita, due aspetti che possono sembrare a prima vista contraddittori. Povertà reale, anzitutto: una povertà che si noti, che si possa toccare con mano perché fatta di cose concrete, che sia una professione di fede in Dio, una testimonianza che il cuore non si soddisfa con le cose create, ma aspira al Creatore e anela colmarsi d'amor di Dio per poi comunicare a tutti questo stesso amore. E, nello stesso tempo, essere uno dei tanti in mezzo agli uomini nostri fratelli, condividendone la vita, le gioie, le ansie, e collaborando nelle stesse attività; amando il mondo e tutte le cose buone che vi sono, utilizzando tutte le cose create per risolvere i problemi della vita umana, e per costruire l'ambiente materiale e spirituale propizio allo sviluppo delle persone e delle comunità.

Raggiungere la sintesi di questi due aspetti è — in buona parte — una questione personale, una questione di vita interiore, per saper giudicare momento per momento e scoprire caso per caso che cosa Dio ci chiede. Non voglio dunque dare regole fisse, ma solo delle linee generali di orientamento, riferendomi specialmente alle madri di famiglia.

Sacrificio: ecco in che cosa consiste, in gran parte, la povertà reale. Si tratta di saper prescindere dal superfluo, misurato non tanto con regole teoriche, quanto con l'ascolto della voce interiore che ci avverte che l'egoismo o la comodità ingiusta si stanno inoltrando nella nostra vita. Il benessere, inteso in senso positivo, non significa lusso, né corsa al piacere, ma quanto serve a rendere la vita gradevole alla propria famiglia e agli altri, perché tutti possano servire meglio Dio.

La povertà consiste nel raggiungere sul serio il distacco dalle cose terrene; nel sopportare lietamente le scomodità, quando ci sono, o la mancanza di mezzi. Chi è povero sa poi avere tutto il giorno "preso" da un orario elastico, che deve prevedere fra le cose importanti — oltre alle pratiche giornaliere di pietà — il necessario riposo, il tempo per star assieme ai propri cari, un po' di lettura, i momenti da dedicare a un hobby di arte o di letteratura, o ad altra distrazione onesta; e così sa riempire le ore con un'attività utile, cerca di fare le cose nel migliore dei modi, e cura i particolari di ordine, di puntualità, di buon umore. In una parola, sa trovar posto per servire gli altri e per sé stesso: senza dimenticare che tutti gli uomini e tutte le donne — e non solo quelli materialmente poveri — hanno l'obbligo di lavorare; la ricchezza o una situazione economica agiata non sono che un segno del fatto che si è maggiormente obbligati a sentire la responsabilità dell'intera società.

È l'amore che dà senso al sacrificio. Ogni madre sa bene che cos'è il sacrificio per i figli: non si tratta solo di dedicare loro alcune ore, ma di spendere per il loro bene tutta la vita. Vivere dunque pensando agli altri, usare i beni in modo tale che non manchi qualcosa da offrire agli altri: ecco le dimensioni della povertà, che garantiscono un effettivo distacco.

Per una madre, è importante non solo vivere così, ma anche insegnare ai figli a vivere così. Si tratta di educarli promuovendo in loro la fede, l'ottimismo della speranza e la carità; si tratta di insegnare loro a superare l'egoismo e a usare parte del proprio tempo generosamente al servizio delle persone meno fortunate, partecipando a lavori (adeguati alla loro età) in cui si manifesti una vera preoccupazione di solidarietà umana e divina.

In poche parole: ciascuno deve vivere la propria vocazione. Per me il miglior modello di povertà sono sempre stati quei padri e quelle madri di famiglie numerose e povere, che non vivono che per i propri figli, e che con il loro sforzo e con la loro costanza — spesso senza voce per manifestare agli altri le loro ristrettezze — sanno mandare avanti la casa, creando un focolare pieno di gioia, in cui tutti imparano ad amare, a servire, a lavorare.

Riferimenti alla Sacra Scrittura