Elenco di punti

Ci sono 17 punti in «Colloqui con monsignor Escrivá» il cui argomento è Opus Dei  → fine e mezzi soprannaturali.

Da tanti anni lei dice e scrive che la vocazione dei laici consiste in queste tre cose: “Santificare il lavoro, santificarsi nel lavoro e santificare gli altri con il lavoro”. Potrebbe precisare ora che cosa intende esattamente quando dice “santificare il lavoro”?

È difficile spiegarlo con poche parole, perché in questa espressione sono impliciti concetti fondamentali propri della teologia della creazione. Quel che ho sempre insegnato — da quarant'anni a questa parte — è che ogni lavoro umano onesto, sia intellettuale che manuale, deve essere realizzato dal cristiano con la massima perfezione possibile: vale a dire con perfezione umana (competenza professionale) e con perfezione cristiana (per amore della volontà di Dio e al servizio degli uomini). Infatti, svolto in questo modo, quel lavoro umano, anche quando può sembrare umile e insignificante, contribuisce a ordinare in senso cristiano le realtà temporali — manifestando la loro dimensione divina — e viene assunto e incorporato nell'opera mirabile della Creazione e della Redenzione del mondo. In tal modo il lavoro viene elevato all'ordine della grazia e si santifica: diventa opera di Dio, operatio Dei, opus Dei.

Ricordando ai cristiani le parole meravigliose del libro della Genesi — dove si dice che Dio creò l'uomo perché lavorasse —, abbiamo fatto attenzione all'esempio di Cristo, che trascorse quasi tutta la sua esistenza terrena nel lavoro di artigiano, in un villaggio. Noi amiamo questo lavoro umano che Egli adottò come condizione di vita, che coltivò e santificò. Noi vediamo nel lavoro, nella nobile fatica creatrice degli uomini, non solo uno dei valori umani più elevati, lo strumento indispensabile per il progresso della società e il più equo assetto dei rapporti fra gli uomini, ma anche un segno dell'amore di Dio per le sue creature e dell'amore degli uomini fra di loro e per Dio: un mezzo di perfezione, un cammino di santità. Per questo, l'unico scopo dell'Opus Dei è sempre stato quello di contribuire a far sì che nel mondo, in mezzo alle realtà e alle aspirazioni temporali, ci siano uomini e donne di ogni razza e condizione sociale intenti ad amare e servire Dio e gli uomini nel lavoro quotidiano e per mezzo di questo lavoro.

Vorrebbe spiegare la missione centrale e gli obiettivi dell'Opus Dei? Si è ispirato a qualche precedente nell'ideare l'Opera, oppure essa è qualcosa di totalmente nuovo nella Chiesa e nella cristianità? La si può paragonare agli ordini religiosi e agli istituti secolari, o ad associazioni cattoliche del tipo della Holy Name Society, per esempio, dei Cavalieri di Colombo, del Christopher Movement, ecc.?

L'Opus Dei si propone di promuovere fra le persone di tutti i ceti della società la ricerca della santità cristiana in mezzo al mondo. Vale a dire, l'Opus Dei intende aiutare ogni persona che vive nel mondo — l'uomo comune, l'uomo della strada — a condurre una vita pienamente cristiana, senza dover cambiare il suo modo di vita quotidiana, né il suo lavoro abituale, né i propri ideali o aspirazioni.

Pertanto, con una frase che scrissi molti anni fa, si può dire che l'Opus Dei è vecchia come il Vangelo e nuova come il Vangelo. Si tratta di ricordare ai cristiani quel concetto meraviglioso che si legge nella Genesi e cioè che Dio creò l'uomo “perché lavorasse”. Ci siamo ispirati all'esempio di Cristo, che trascorse quasi tutta la sua vita terrena lavorando come artigiano in un villaggio. Il lavoro non è soltanto uno dei valori umani più alti e un mezzo con cui gli uomini debbono contribuire al progresso della società: è anche cammino di santificazione

A quali altre organizzazioni — mi domanda — potremmo paragonare l'Opus Dei? Non è facile rispondere, perché quando si cerca di far confronti tra organizzazioni a fini spirituali, si corre il rischio di fermarsi ai tratti esterni o alle denominazioni giuridiche, dimenticando ciò che è più importante: lo spirito che è la vita e la ragion d'essere di tutta l'attività.

Mi limiterò a dirle, riferendomi alle istituzioni che ha menzionato, che l'Opus Dei è molto lontana dagli Ordini religiosi e dagli Istituti secolari, e più vicino a istituzioni come la Holy Name Society.

L'Opus Dei è un'organizzazione internazionale di laici alla quale appartengono anche sacerdoti secolari (un'esigua minoranza rispetto al totale dei soci). I soci dell'Opera sono persone che vivono nel mondo, dove esercitano la loro professione o il loro mestiere. Aderendo all'Opus Dei, non lo fanno per abbandonare il lavoro, ma, al contrario, per cercare un aiuto spirituale per santificare il proprio lavoro ordinario, trasformandolo anche in mezzo per santificarsi e aiutare gli altri a santificarsi. Essi non cambiano di stato — continuano a essere celibi, sposati, vedovi o sacerdoti —, ma cercano di servire Dio e gli altri uomini nel proprio stato. All'Opus Dei non interessano né voti né promesse; ciò che chiede ai suoi soci è che, pur con le deficienze e gli errori propri di ogni vita umana, si sforzino di praticare le virtù umane e cristiane, sapendosi figli di Dio.

Se si vuole fare un paragone, il modo più facile per capire l'Opera è di pensare alla vita dei primi cristiani. Essi vivevano a fondo la loro vocazione cristiana; cercavano seriamente la perfezione alla quale erano chiamati per il fatto, semplice e sublime, di aver ricevuto il Battesimo. Non si distinguevano esteriormente dagli altri cittadini. I soci dell'Opus Dei sono persone comuni; svolgono un lavoro qualsiasi; vivono in mezzo al mondo come realmente sono: cittadini cristiani che vogliono corrispondere in pieno alle esigenze della loro fede.

Vorrebbe descrivere come si è sviluppata e come si è evoluta l'Opus Dei dopo la fondazione, sia riguardo alle sue caratteristiche che ai suoi obiettivi, in un periodo che è stato testimone di un enorme cambiamento all'interno di tutta la Chiesa?

Fin dal primo momento l'unico obiettivo dell'Opus Dei è stato quello che ho già descritto: contribuire a far sì che vi siano in mezzo al mondo uomini e donne di ogni razza e condizione sociale, che cerchino di amare e di servire Dio e gli uomini nel loro lavoro ordinario e per mezzo di esso. Dall'inizio dell'Opera, nel 1928, la mia predicazione è stata questa: la santità non è un privilegio di pochi, perché possono essere divini tutti i cammini della terra, tutte le condizioni di vita, tutte le professioni, tutte le occupazioni oneste. Le implicazioni di questo messaggio sono molte e l'esperienza della vita dell'Opera mi ha aiutato a conoscerle con sempre maggior profondità e ricchezza di sfumature. L'Opera è nata piccola ed è cresciuta normalmente, in modo graduale e progressivo, come cresce un organismo vivo, come tutto ciò che si sviluppa nella storia.

Ma il suo obiettivo e la sua ragion d'essere non sono cambiati e non cambieranno per quanto possa cambiare la società, perché il messaggio dell'Opus Dei è che si può santificare ogni lavoro onesto, quali che siano le circostanze in cui si svolge.

Oggi fanno parte dell'Opera persone di tutte le professioni: non solo medici, avvocati, ingegneri e artisti, ma anche muratori, minatori, contadini. Tutte le professioni, dunque: dai registi cinematografici e dai piloti di reattori alle parrucchiere di alta moda. Per i soci dell'Opus Dei essere aggiornati, comprendere il mondo moderno è qualcosa di naturale e di istintivo, perché sono essi — con gli altri cittadini e uguali a loro — che fanno nascere questo mondo e gli conferiscono modernità.

Essendo questo lo spirito della nostra Opera, comprenderà che è stata una grande gioia per noi vedere che il Concilio ha dichiarato solennemente che la Chiesa non respinge il mondo in cui vive, né il suo progresso e sviluppo, ma lo comprende e lo ama. Del resto, è una caratteristica centrale della spiritualità che i soci dell'Opera si sforzano di vivere — da ormai quarant'anni —, la consapevolezza di essere allo stesso tempo parte della Chiesa e dello Stato: ciascuno si assume quindi completamente, con libertà piena, la propria responsabilità individuale di cristiano e di cittadino.

Come spiega l'enorme successo dell'Opus Dei e con quali criteri lei misura questo successo?

Quando un'impresa è soprannaturale, importano poco il successo o l'insuccesso, così come solitamente vengono intesi. Già san Paolo diceva ai cristiani di Corinto che nella vita spirituale quello che interessa non è il giudizio degli altri, né il proprio, ma quello di Dio.

Certamente l'Opera oggi è estesa in tutto il mondo: vi appartengono uomini e donne di una settantina di nazionalità. Pensando a questo fatto, io stesso mi sorprendo. Non vi trovo alcuna spiegazione umana; vi trovo soltanto la volontà di Dio, poiché “lo Spirito soffia dove vuole”, e si serve di chi vuole per realizzare la santificazione degli uomini. Tutto questo è per me motivo di ringraziamento, di umiltà e di supplica a Dio perché mi aiuti sempre a servirlo.

Mi domanda anche qual è il criterio con cui misuro e giudico le cose. La risposta è molto semplice: santità, frutti di santità.

L'apostolato più importante dell'Opus Dei è quello che ogni socio realizza con la testimonianza della propria vita e con la sua parola, nei rapporti abituali con amici e colleghi di professione. Chi può misurare l'efficacia soprannaturale di questo apostolato silenzioso e umile? Non si può misurare il valore dell'esempio di un amico leale e sincero, o l'influenza di una buona madre in seno alla famiglia.

Ma forse la sua domanda si riferisce agli apostolati che l'Opus Dei realizza in quanto tale, supponendo che in questo caso si possano misurare i risultati da un punto di vista umano, tecnico; vedendo cioè se una scuola di addestramento professionale riesce a promuovere socialmente le persone che la frequentano, o se un'università dà ai suoi studenti una formazione professionale e culturale adeguata. Ammesso che la sua domanda abbia questo senso, le dirò che il risultato si può spiegare almeno in parte col fatto che si tratta di lavori realizzati da persone che vi si dedicano come specifica occupazione professionale e quindi con la dovuta preparazione, come fanno tutti coloro che vogliono lavorare seriamente. Ciò vuol dire, fra l'altro, che queste iniziative non sono impostate secondo schemi preconcetti, ma che si studiano caso per caso le necessità peculiari della società in cui devono essere realizzate, per adattarle alle sue esigenze reali.

Ma le ripeto che all'Opus Dei non interessa in primo luogo l'efficacia umana. Il successo o l'insuccesso reale di queste attività dipende dal fatto che, oltre a essere umanamente ben fatte, servano o no a far sì che coloro che le realizzano e coloro che ne beneficiano amino Dio, si sentano fratelli di tutti gli uomini e manifestino questi sentimenti in un servizio disinteressato all'umanità.

A che cosa attribuisce la crescente importanza che si dà all'Opus Dei? È dovuta solo all'attrattiva della sua dottrina o è anche il riflesso delle attese dell'età contemporanea?

Il Signore, nel 1928, suscitò l'Opus Dei perché i cristiani ricordassero, come narra il libro della Genesi, che Dio creò l'uomo perché lavorasse. Siamo venuti a richiamare di nuovo l'attenzione sull'esempio di Gesù che visse trent'anni a Nazaret lavorando, svolgendo un mestiere. Nelle mani di Gesù il lavoro, un lavoro professionale simile a quello di milioni di uomini in tutto il mondo, si converte in impresa divina, in attività redentrice, in cammino di salvezza.

Lo spirito dell'Opera raccoglie una realtà bellissima — dimenticata nel corso dei secoli da molti cristiani —: qualunque lavoro umanamente decoroso e onesto può convertirsi in un lavoro divino. Quando si intende servire Dio, non esistono mestieri insignificanti: tutti sono di grande importanza.

Per amare e servire Dio, non è necessario fare cose strane. Cristo chiede a tutti gli uomini, senza eccezione, di essere perfetti come è perfetto il Padre suo nei cieli (cfr Mt 5, 48). Per la maggior parte degli uomini, la santità consiste nel santificare il proprio lavoro, nel santificarsi nel lavoro e nel santificare gli altri per mezzo del lavoro, realizzando così l'incontro con Dio lungo la strada della propria vita.

Le condizioni della società contemporanea, che valorizza sempre di più il lavoro, agevolano evidentemente agli uomini del nostro tempo la comprensione di questo aspetto del messaggio cristiano che lo spirito dell'Opera è chiamato a sottolineare. Ma più importante ancora è l'influsso dello Spirito Santo, che nella sua azione vivificatrice ha voluto che il nostro tempo fosse testimone di un grande movimento rinnovatore in tutto il cristianesimo. Leggendo i decreti del Concilio Vaticano II si scorge chiaramente che parte importante di questo rinnovamento è appunto la rivalutazione del lavoro ordinario e della dignità della vocazione del cristiano che vive e lavora nel mondo.

Tutto ciò comporta una visione più profonda della Chiesa, vista come comunità formata da tutti i fedeli, per cui siamo tutti solidalmente responsabili di una stessa missione, che va compiuta da ciascuno d'accordo con le circostanze personali. I laici, grazie agli impulsi dello Spirito Santo, sono sempre più consapevoli di "essere Chiesa", e di avere quindi una missione specifica, sublime e necessaria perché voluta da Dio. E sanno che questa missione deriva dalla loro stessa condizione di cristiani, e non necessariamente da un mandato della Gerarchia; anche se evidentemente dovranno compiere questa missione in unione con la Gerarchia ecclesiastica e d'accordo con gli insegnamenti del Magistero: perché senza unione con il Corpo Episcopale e con il suo Capo, il Romano Pontefice, non ci può essere, per un cattolico, unione con Cristo.

Il modo specifico che hanno i laici di contribuire alla santità e all'apostolato della Chiesa è la loro libera e responsabile azione all'interno delle strutture temporali, nelle quali essi infondono il lievito del messaggio cristiano. La testimonianza di vita cristiana, la parola che illumina nel nome di Dio, l'azione responsabile per servire gli altri contribuendo a risolvere i comuni problemi: ecco come si manifesta questa presenza, attraverso la quale il comune cristiano compie la sua missione divina.

Da tanti anni a questa parte, fin dalla stessa fondazione dell'Opus Dei, io ho meditato e ho fatto meditare quelle parole di Cristo riportate da san Giovanni: Et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum (Gv 12, 32). Cristo, morendo sulla Croce, attrae a Sé l'intera creazione; e, nel suo nome, i cristiani, lavorando in mezzo al mondo, devono riconciliare tutte le cose con Dio, situando Cristo sulla vetta di tutte le attività umane.

Vorrei aggiungere che, accanto a questa presa di coscienza dei laici, si sta producendo un'analoga sensibilizzazione dei pastori. Essi si rendono conto di quanto sia "specifica" la vocazione dei laici, che va suscitata e favorita con una pastorale che porta a scoprire in mezzo al Popolo di Dio il carisma della santità e dell'apostolato, nelle infinite e svariatissime forme in cui Dio lo concede.

Questa nuova pastorale è molto impegnativa, ma, a mio avviso, assolutamente necessaria. Richiede il dono soprannaturale del discernimento degli spiriti, la sensibilità per le cose di Dio, l'umiltà di non voler imporre le proprie scelte e di servire ciò che Dio suscita nelle anime. In poche parole, l'amore per la legittima libertà dei figli di Dio, che trovano Cristo e sono resi portatori di Cristo, percorrendo strade diverse, ma tutte ugualmente divine.

Uno dei maggiori pericoli che minacciano oggi la Chiesa potrebbe essere proprio questo: non riconoscere le istanze divine della libertà cristiana, e sotto la spinta di falsi criteri di efficacia, pretendere di imporre ai cristiani un'azione uniforme. Alla radice di questi atteggiamenti c'è qualcosa di legittimo, anzi di lodevole: il desiderio che la Chiesa offra una testimonianza capace di scuotere il mondo moderno. Ma temo proprio che questa non sia la strada giusta, perché da una parte induce a compromettere la Gerarchia nelle questioni temporali, cadendo in un clericalismo diverso da quello dei secoli scorsi, ma non meno funesto; e d'altra parte induce a isolare i laici, i comuni cristiani, dal mondo in cui vivono, per farli diventare portavoce di decisioni o di idee concepite all'esterno di questo loro mondo.

Mi pare che a noi sacerdoti venga chiesta l'umiltà di imparare a non essere di moda; dobbiamo essere veramente servi dei servi di Dio — ricordando il grido di Giovanni Battista: Illum oportet crescere, me autem minui (Gv 3, 30), bisogna che Cristo cresca e che io diminuisca —, per far sì che i comuni cristiani, i laici, rendano presente Cristo in tutti gli ambienti della società. La missione di addottrinare, di aiutare a scoprire sempre meglio le esigenze personali e sociali del Vangelo, di indurre a riconoscere i segni dei tempi, è e sarà sempre uno dei compiti fondamentali del sacerdote. Ma ogni funzione sacerdotale deve compiersi nel massimo rispetto della legittima libertà delle coscienze: chi deve rispondere liberamente a Dio è la singola persona. Del resto, qualsiasi cattolico, oltre all'aiuto da parte del sacerdote, ha anche delle ispirazioni personali che riceve da Dio, una grazia di stato che gli consente di portare a compimento la sua missione specifica di uomo e di cristiano. Chi ritiene che, per far sentire la voce di Cristo nel mondo di oggi, sia necessario che il clero parli o intervenga sempre, non ha ancora capito bene la dignità della vocazione divina di tutti e di ciascuno dei fedeli.

In questo quadro, qual è il compito che ha svolto e che intende svolgere l'Opus Dei? Quali rapporti di collaborazione mantengono i soci con altre organizzazioni che operano in questo campo?

Non spetta a me il giudizio storico su quello che l'Opus Dei ha realizzato, con la grazia di Dio. Posso solo affermare che la finalità cui tende l'Opus Dei è di favorire la ricerca della santità e l'esercizio dell'apostolato da parte dei cristiani che vivono in mezzo al mondo, qualunque sia il loro stato e la loro condizione.

L'Opera è nata per contribuire a far sì che questi cristiani inseriti nel tessuto connettivo della società civile — con la loro famiglia, gli amici, il lavoro professionale e le loro nobili aspirazioni — comprendano che la loro vita, così come è, può essere l'occasione di un incontro con Cristo, ed è pertanto una strada di santità e di apostolato. Cristo è presente in qualsiasi onesto impegno umano: la vita di un comune cristiano — che ad alcuni forse sembra una vita scialba e meschina — può e deve essere una vita santa e santificante.

In altri termini: per seguire Cristo, per servire la Chiesa, per aiutare gli altri a riconoscere il loro destino eterno, non è indispensabile abbandonare il mondo o allontanarsi da esso, e nemmeno c'è bisogno di dedicarsi a un'attività ecclesiastica; la condizione necessaria e sufficiente è di compiere la missione che Dio ha assegnato a ciascuno, nel luogo e nell'ambiente voluti dalla Sua Provvidenza.

E siccome la maggior parte dei cristiani riceve da Dio la missione di santificare il mondo dal di dentro, rimanendo in mezzo alle strutture temporali, l'Opus Dei si dedica a far loro scoprire questa missione divina, mostrando che la vocazione umana — vale a dire, la vocazione professionale, famigliare, sociale — non si oppone alla vocazione soprannaturale, ma anzi è parte integrante di essa.

L'Opus Dei ha come unica ed esclusiva missione la diffusione di questo messaggio — che è un messaggio evangelico — in mezzo a tutte le persone che vivono e lavorano nel mondo, in qualsiasi ambiente e professione. E a coloro che comprendono questo ideale di santità, l'Opera fornisce i mezzi spirituali e la formazione dottrinale, ascetica e apostolica necessaria per realizzarlo nella propria vita.

I soci dell'Opus Dei non agiscono in gruppo ma individualmente, con libertà e responsabilità personali. L'Opus Dei non è quindi un'organizzazione chiusa o che comunque raggruppi i suoi soci per isolarli dagli altri uomini. Le attività apostoliche collettive proprie dell'Opus Dei — che sono le uniche che l'Opera dirige e delle quali si rende responsabile1 — sono aperte a ogni tipo di persona, senza discriminazioni di alcun genere, né sociali, né culturali, né religiose. E i soci, proprio perché devono santificarsi nel mondo, collaborano sempre con tutte le persone con cui sono in contatto attraverso il lavoro e la partecipazione alla vita civica.

Parte essenziale dello spirito cristiano è vivere non solo in unione con la Gerarchia ordinaria — Romano Pontefice ed Episcopato —, ma anche sentendo l'unità con gli altri fratelli nella fede. Da molto tempo ho visto che una delle maggiori iatture della Chiesa ai nostri giorni è l'ignoranza che hanno molti cattolici della vita e delle opinioni dei cattolici negli altri Paesi e negli altri ambienti della società. Bisogna far rivivere quella fraternità che i primi cristiani sentivano così profondamente. In tal modo ci sentiremo uniti, amando al tempo stesso la varietà delle vocazioni personali. E si eviteranno molti apprezzamenti ingiusti e offensivi che determinati gruppetti diffondono nell'opinione pubblica — in nome del cattolicesimo! — contro i loro fratelli nella fede che in realtà agiscono con rettitudine di intenzione e spirito di sacrificio, tenendo conto delle circostanze concrete del loro Paese.

È molto importante che ognuno si sforzi di essere fedele alla chiamata divina, perché solo cosi potrà contribuire al bene della Chiesa con il suo apporto specifico, in virtù del carisma ricevuto da Dio. Il compito proprio dei soci dell'Opus Dei — che sono dei comuni cristiani — è di santificare il mondo dal di dentro, partecipando alle più diverse attività umane. Dato che la loro appartenenza all'Opera non modifica in modo alcuno la loro situazione nel mondo, essi prendono parte, nel modo suggerito dalle diverse circostanze, alle celebrazioni religiose collettive, alla vita parrocchiale e così via. Anche sotto questo profilo essi sono dei comuni cittadini che vogliono essere dei buoni cattolici.

Ma in genere i soci dell'Opera non si dedicano ad attività confessionali; soltanto in casi eccezionali, dietro espressa richiesta della Gerarchia, qualcuno presta la propria collaborazione. E non bisogna credere che questo atteggiamento nasca dal desiderio di fare gli originali, e meno ancora dalla mancanza di considerazione per le attività confessionali; è semplicemente la conseguenza della necessità di occuparsi di ciò che è proprio della vocazione all'Opus Dei. Ci sono già molti religiosi e molti chierici, come anche molti zelanti laici, che si occupano di queste altre attività, dedicandovi i loro migliori sforzi.

Il lavoro proprio dei soci dell'Opera — il compito a cui si sanno chiamati da Dio — è diverso. Nell'ambito della vocazione universale alla santità, i membri dell'Opus Dei ricevono inoltre una vocazione speciale, che li induce a dedicarsi liberamente e responsabilmente alla ricerca della santità e all'esercizio dell'apostolato in mezzo al mondo, impegnandosi a incarnare uno spirito specifico e a ricevere, per tutta la vita, una formazione peculiare. Se trascurassero il proprio lavoro nel mondo per occuparsi delle attività ecclesiastiche, renderebbero sterili i doni divini che hanno ricevuto; con l'illusione di un'efficacia pastorale immediata, arrecherebbero un danno effettivo alla Chiesa: perché non ci sarebbero tanti cristiani che si dedicano a santificarsi in tutte le professioni e i mestieri della società civile, nel campo sconfinato del lavoro secolare.

Oltretutto, la pressante necessità di una ininterrotta formazione professionale e di una seria formazione religiosa, contando anche il tempo che ognuno personalmente dedica alle pratiche di pietà, alla preghiera e al compimento sacrificato dei doveri di stato, occupa tutta la vita: non ci sono ore libere.

Sappiamo che all'Opus Dei appartengono uomini e donne di ogni condizione sociale, sia celibi che coniugati. Qual è l'elemento comune che caratterizza la vocazione all'Opera? Quali sono gli impegni che ciascuno assume per realizzare i fini dell'Opus Dei?

Posso dirlo in poche parole: cercare la santità in mezzo al mondo, nel bel mezzo della strada. Chi riceve da Dio la vocazione specifica all'Opus Dei, ha la convinzione, e la vive, che la santità deve raggiungerla nel proprio stato, nell'esercizio del proprio lavoro, in una professione liberale o in un mestiere manuale. Ho detto che "ha la convinzione e la vive", perché non si tratta di accettare un postulato teorico, ma di realizzare questo ideale giorno per giorno, nella vita ordinaria.

Impegnarsi a cercare la santità, malgrado gli errori e le miserie personali, vuol dire impegnarsi, con la grazia di Dio, a praticare la carità, che è la pienezza della legge e il vincolo della perfezione. E la carità non è una cosa astratta; vuol dire dedizione reale e totale al servizio di Dio, e di tutti gli uomini; al servizio di Dio che ci parla nel silenzio della preghiera e nel frastuono del mondo, e al servizio degli uomini, la cui esistenza si intreccia con la nostra.

Praticando la carità — l'Amore — si attuano tutte le virtù umane e soprannaturali del cristiano, che formano un'unità e non possono ridursi a una enumerazione completa e definitiva. La carità richiede la pratica della giustizia, la solidarietà, la responsabilità famigliare e sociale, la povertà, la gioia, la castità, l'amicizia…

Si vede subito che la pratica di queste virtù conduce all'apostolato, anzi, è già di per sé apostolato: infatti, quando uno cerca di vivere così mentre svolge il suo lavoro quotidiano, la sua condotta cristiana diventa buon esempio, testimonianza, aiuto concreto ed efficace; si impara a seguire le orme di Cristo, il quale coepit facere et docere (At 1, 1), cominciò a fare e a insegnare, unendo l'esempio alla parola. Così si spiega che, da quarant'anni, quest'apostolato lo chiamo "apostolato di amicizia e di confidenza".

Tutti i soci dell'Opus Dei hanno questo medesimo impegno di santità e di apostolato. Per questo nell'Opera non ci sono gradi o categorie di soci, bensì una varietà di situazioni personali — le diverse situazioni che ciascuno ha nel mondo — alle quali si adatta perfettamente la stessa e unica vocazione specifica e divina: cioè la chiamata a una completa dedizione, a un impegno personale, libero e responsabile, nel compimento della volontà di Dio su ciascuno di noi.

Come si può vedere, il fenomeno pastorale dell'Opus Dei è qualcosa che nasce dalla base, cioè dalla vita ordinaria del cristiano che vive e lavora assieme agli altri uomini.

Non si trova sulla linea di una mondanizzazione — dissacralizzazione — della vita monastica o religiosa; non è l'ultimo stadio del processo di avvicinamento dei religiosi al mondo.

Chi riceve la vocazione all'Opus Dei riceve una nuova visione delle cose che ha intorno a sé, luci nuove nei suoi rapporti sociali, nella sua professione, nelle sue preoccupazioni, nelle sue pene e nelle sue gioie. Ma nemmeno per un istante egli smette di vivere in mezzo a tutte queste cose; e quindi completamente fuori luogo parlare di adattamento al mondo o alla società moderna, perché nessuno si adatta a ciò che già possiede come cosa propria; nelle cose che formano il proprio mondo uno ci si trova naturalmente. La vocazione che si riceve in questo modo è uguale a quella che sbocciava nell'animo di quei pescatori, contadini, commercianti o soldati che si sedevano attorno a Gesù in Galilea e lo sentivano dire: “Siate perfetti com'è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5, 48). Ripeto: questa santità — quella che cerca un socio dell'Opus Dei — è la santità propria del cristiano, senza altre aggiunte: quella cioè a cui è chiamato ogni cristiano, e che consiste nell'attuare integralmente le esigenze della fede. Non ci interessa la perfezione evangelica, che è considerata propria dei religiosi e di alcune istituzioni assimilate ai religiosi; e meno che mai ci interessa la cosiddetta vita di perfezione evangelica, che si riferisce canonicamente allo stato religioso.

La strada della vocazione religiosa la considero benedetta e necessaria alla Chiesa, e chi non la stimasse non avrebbe lo spirito dell'Opera. Ma questa non è la mia strada, né la strada dei soci dell'Opus Dei. Si può ben dire che tutti e ciascuno di loro hanno aderito all'Opus Dei con la condizione espressa di non cambiare di stato; la nostra caratteristica specifica è appunto questa: ognuno vuole santificare il proprio stato nel mondo, e si vuole santificare nel luogo del suo incontro con Cristo. Questo è l'impegno che ogni socio assume per realizzare i fini propri dell'Opus Dei.

Chiarito questo punto, vorrei però chiederle: quali sono le caratteristiche della formazione spirituale dei soci che escludono la presenza di qualsiasi interesse mondano nell' aspirare ad appartenere all'Opus Dei?

Gli interessi non puramente spirituali sono esclusi alla radice, perché l'Opera chiede molto — distacco, sacrificio, abnegazione, lavoro senza soste al servizio delle anime — e non dà nulla. Voglio dire che non dà nulla sul piano degli interessi temporali; perché sul piano della vita spirituale dà molto: dà i mezzi per combattere e vincere nella lotta ascetica, avvia sulla strada della preghiera e insegna a trattare Gesù come un fratello, a scorgere Iddio in tutte le circostanze della vita, a sentirsi figli di Dio e per questo impegnati a diffondere la sua dottrina.

Una persona che non avanza sulla strada della vita interiore, fino a capire che vale la pena di donare tutto se stesso e tutta la propria vita al servizio del Signore, non può perseverare nell'Opus Dei, perché la santità non è un'etichetta ma una profonda esigenza.

D'altra parte, l'Opus Dei non ha alcun tipo di attività a scopi politici, economici, ideologici: nessuna azione temporale. Le sue uniche attività sono la formazione spirituale dei soci e le opere di apostolato: cioè la continua cura spirituale di ciascuno dei soci e le iniziative associate di apostolato, con scopi di assistenza, di beneficenza, di educazione, ecc.

Le persone dell'Opus Dei si associano solo per seguire una strada di santità ben definita, e per collaborare a determinate opere d'apostolato. Il loro impegno reciproco esclude qualsiasi interesse temporale, per il semplice fatto che in questo campo tutti i soci dell'Opera sono liberi, e pertanto ognuno va per conto suo, con intendimenti e interessi diversi, anzi spesso divergenti.

Come conseguenza del fine dell'Opera, che si cura esclusivamente di Dio, il suo spirito è uno spirito di libertà, di amore per la libertà personale di tutti gli uomini. E siccome questo amore per la libertà è sincero e non è solo un enunciato teorico, noi amiamo anche la conseguenza necessaria della libertà, cioè il pluralismo. Nell'Opus Dei, il pluralismo è voluto e amato, non semplicemente tollerato e meno che mai osteggiato. Quando vedo nei soci dell'Opus Dei tante idee diverse, tanti atteggiamenti contrastanti — riguardo alle questioni politiche, sociali, economiche, artistiche, ecc. — questo spettacolo mi conforta, perché è segno che tutto il lavoro si svolge con la mente rivolta a Dio, come deve essere.

Unità spirituale e varietà nelle cose temporali sono perfettamente compatibili là dove non regnano il fanatismo e l'intolleranza; là soprattutto dove si vive di fede e si sa che noi uomini siamo uniti non da eventuali legami di simpatia o di interesse, ma dall'azione di uno stesso Spirito, che ci rende fratelli di Cristo e ci conduce verso Dio Padre.

Un vero cristiano non pensa mai che l'unità della fede, la fedeltà al Magistero e alla Tradizione della Chiesa, l'ansia di far giungere agli altri il messaggio di salvezza portato da Cristo… siano in contrasto con la diversità di atteggiamenti in quelle cose che, come si suol dire, Dio ha lasciato alla libera discussione degli uomini; anzi è pienamente cosciente che questa varietà fa parte del progetto divino, è voluta da Dio il quale distribuisce i suoi doni e la sua luce come vuole. Il cristiano deve amare gli altri, e deve perciò rispettare le opinioni contrarie alla sua convivendo in piena fraternità con coloro che la pensano in modo diverso.

E siccome i soci dell'Opus Dei sono stati formati a questo spirito è impossibile che uno pensi di approfittare del fatto che appartiene all'Opera per ottenere vantaggi e cercare di imporre agli altri determinate scelte politiche o culturali; gli altri, infatti, non sarebbero disposti a tollerare quest'abuso, e indurrebbero costui a cambiare idea o a lasciare l'Opus Dei. Questo è un punto sul quale nessuno nell'Opus Dei potrà mai permettere la benché minima deviazione, perché ognuno deve difendere non solo la propria libertà personale, ma anche il carattere soprannaturale dell'attività a cui si è dedicato. Ritengo perciò che la libertà e la responsabilità personali siano la migliore garanzia degli scopi soprannaturali dell'Opera di Dio.

Qualcuno potrebbe pensare che finora l'Opus Dei può essere stato favorito dall'entusiasmo dei primi aderenti (anche se sono parecchie migliaia). Contro il rischio, connaturato in ogni istituzione, di un possibile intiepidimento di fervore e di slancio iniziale, esiste una garanzia per la continuità dell'Opera?

L'Opera si basa non sull'entusiasmo ma sulla fede. Gli anni dei primi sviluppi — lunghi anni — furono molto duri, e non si scorgevano altro che difficoltà. L'Opus Dei riuscì ad andare avanti grazie all'aiuto di Dio, e alla preghiera e al sacrificio dei primi aderenti, privi di ogni mezzo umano; non c'era altro che gioventù, buon umore e il desiderio di fare la volontà di Dio. Fin dal principio l'arma dell'Opus Dei è stata sempre la preghiera, la vita di dedizione, la rinuncia silenziosa a ogni forma di egoismo per servire le anime. Come le dicevo prima, chi si avvicina all'Opus Dei viene a ricevere uno spirito che lo spinge appunto a offrire tutto, ma continuando a lavorare professionalmente per amore di Dio, e, per Lui, delle Sue creature.

La garanzia che non si produrrà un intiepidimento sarà che i miei figli non perdano mai questo spirito. So bene che le opere umane soffrono l'usura del tempo; ma questo non succede con le opere divine, a meno che gli uomini non le facciano decadere. Solo quando si perde l'impulso divino, giunge la corruzione, la decadenza. Nel nostro caso si scorge chiaramente la Provvidenza del Signore, che ha fatto in modo che in così poco tempo — quarant'anni — questa vocazione divina specifica fosse ricevuta e realizzata da comuni cittadini, uguali agli altri, di tante nazioni diverse.

Il fine dell'Opus Dei, ripeto ancora, è la santità di ognuno dei soci, uomini e donne che permangono nel luogo che occupavano nel mondo. Se qualcuno non venisse all'Opus Dei deciso a santificarsi malgrado tutto — voglio dire, malgrado le proprie miserie e i propri errori personali — se ne andrebbe subito. Penso che da santità nasce sempre santità, e supplico Iddio affinché nell'Opus Dei non manchi mai questa profonda convinzione, questa vita di fede. Come vede, noi non basiamo la nostra fiducia su garanzie meramente umane o giuridiche. Le opere ispirate da Dio si muovono al ritmo segnato dalla grazia. La mia unica ricetta è questa: essere santi, voler essere santi, con santità personale.

Lei ha accennato più volte al lavoro: ci potrebbe dire qual è l'importanza del lavoro nella spiritualità dell'Opera?

La vocazione all'Opus Dei non cambia né modifica in nessun modo la condizione, lo stato di vita di chi la riceve. E siccome la condizione umana è il lavoro, la vocazione soprannaturale alla santità e all'apostolato secondo lo spirito dell'Opus Dei conferma la vocazione umana al lavoro. La stragrande maggioranza dei soci sono dei laici, dei comuni cristiani; la loro condizione è di avere una professione, un mestiere, un'occupazione, spesso assorbente, con cui si guadagnano la vita, sostengono la famiglia, contribuiscono al bene comune, realizzano la loro personalità.

E la vocazione all'Opus Dei viene a confermare tutto questo; tanto è vero che uno dei segni essenziali della vocazione è proprio l'impegno di voler restare nel mondo e di svolgere un lavoro quanto più perfetto possibile — tenendo conto, come dicevo, delle proprie imperfezioni personali — sia dal punto di vista umano che dal punto di vista soprannaturale. Un lavoro, cioè, che contribuisca effettivamente all'edificazione della città terrena (e che sia fatto quindi con competenza, con spirito di servizio) e alla consacrazione del mondo (e che pertanto sia santificante e santificato).

Chiunque voglia vivere con perfezione la propria fede e praticare l'apostolato secondo lo spirito dell'Opus Dei, deve santificare sé stesso con la professione, santificare la professione, e santificare gli altri con la professione.

Vivendo così (senza perciò distinguersi dagli altri cittadini uguali a lui, che con lui lavorano), si sforza di identificarsi con Cristo, imitando i suoi trent'anni di lavoro nella bottega di Nazaret.

Infatti, questo lavoro di tutti i giorni non è soltanto l'àmbito nel quale i soci dell'Opera debbono santificarsi, ma addirittura la materia stessa della loro santità: e così, negli avvenimenti comuni della giornata essi scoprono la mano di Dio, e si sentono spronati a intensificare la loro vita di preghiera. Lo stesso impegno professionale li mette in contatto con altre persone — parenti, amici, colleghi — e con i grandi problemi che preoccupano la società in cui vivono o il mondo intero, e offre loro quindi l'occasione per vivere la dedizione al servizio degli altri, che è una caratteristica essenziale dei cristiani. In tal modo, debbono impegnarsi a dare una vera e autentica testimonianza di Cristo, affinché tutti imparino a conoscere e ad amare il Signore, a scoprire che la vita normale nel mondo, il lavoro di tutti i giorni, può essere un incontro con Dio.

In altre parole, la santità e l'apostolato fanno un tutt'uno con la vita secolare dei soci dell'Opera, e per questo il loro lavoro è il fulcro della loro vita spirituale. La loro dedizione a Dio si innesta proprio nel lavoro che svolgevano prima di aderire all'Opera e che continueranno a svolgere dopo.

Nei primi anni della mia attività pastorale, quando cominciai a predicare questi concetti, alcuni non mi capirono, altri si scandalizzarono: si erano assuefatti a sentir parlare del mondo sempre in senso negativo. A me il Signore aveva fatto comprendere — e io cercavo di far comprendere agli altri — che il mondo è buono perché le opere di Dio sono sempre perfette, e che siamo noi uomini che rendiamo il mondo cattivo con il peccato.

Dicevo a quell'epoca, e continuo a dire adesso, che dobbiamo amare il mondo, perché nel mondo ci incontriamo con Dio, perché nelle cose e negli avvenimenti del mondo Dio ci si manifesta e ci si rivela.

Il male e il bene si mescolano nella storia umana, e il cristiano deve essere quindi una creatura capace di discernere; ma questo discernimento non lo deve condurre mai a negare la bontà delle opere di Dio: al contrario, lo deve condurre a riconoscere il divino che si manifesta nell'umano, persino dietro la nostra stessa debolezza. Un bel motto per la vita cristiana si può trovare in quelle parole dell'Apostolo: “Tutte le cose sono vostre, voi di Cristo e Cristo di Dio” (1 Cor 3, 22), per potere cosi realizzare i progetti di questo Dio che vuol salvare il mondo.

Sappiamo che la sua dottrina sul matrimonio come cammino di santità non è nuova nella sua predicazione. Già dal 1934, in Consideraciones espirituales, lei insisteva sulla necessità di vedere il matrimonio come una vocazione. Però, sia in questo libro che in Cammino, lei scrisse anche che il matrimonio è per "i soldati" e non per lo "stato maggiore" di Cristo. Ci spiegherebbe come si conciliano i due aspetti?

Nello spirito e nella vita dell'Opus Dei non c'è mai stata nessuna difficoltà per conciliare questi due aspetti. D'altronde, è bene ricordare che la maggiore eccellenza del celibato — quello fondato su motivi spirituali — non è una mia opinione teologica, bensì dottrina di fede della Chiesa.

Quando verso gli anni trenta scrivevo quelle frasi, nell'ambiente cattolico — nella vita pastorale concreta — si tendeva a promuovere la ricerca della perfezione cristiana nella gioventù facendo apprezzare solo il valore soprannaturale della verginità, e lasciando in ombra il valore del matrimonio cristiano come cammino di santità.

Normalmente nelle scuole cattoliche non si era soliti formare i giovani ad apprezzare adeguatamente la dignità del matrimonio. Anche oggi è frequente che negli esercizi spirituali che si danno agli alunni degli ultimi anni, vengano proposti molti più elementi per considerare una possibile vocazione religiosa, piuttosto che quelli dell'altrettanto possibile orientamento al matrimonio. E non mancano coloro — in numero, fortunatamente, sempre minore — che screditano la vita coniugale, presentandola ai giovani come qualcosa che la Chiesa si limita a tollerare, come se la formazione di una famiglia non permettesse di aspirare seriamente alla santità.

Nell'Opus Dei ci siamo sempre comportati in un altro modo, e — mettendo ben in chiaro la ragion d'essere e l'eccellenza del celibato apostolico — abbiamo indicato il matrimonio come un cammino divino sulla terra.

Non mi spaventa l'amore umano, l'amore santo dei miei genitori, di cui il Signore si valse per darmi la vita. Quell'amore io lo benedico con tutte e due le mani. I coniugi sono i ministri e la materia stessa del sacramento del matrimonio, come il pane e il vino sono la materia dell'Eucaristia. Per questo mi piacciono tutte le canzoni che parlano dell'amore puro degli uomini: per me sono canti d'amore umano che innalzano al divino. Allo stesso tempo, dico sempre che quelli che seguono la vocazione al celibato apostolico non sono degli scapoloni che non comprendono e non apprezzano l'amore, tutt'altro: la spiegazione della loro vita sta nella realtà di quell'Amore divino — mi piace scriverlo con la maiuscola — che è l'essenza stessa di ogni vocazione cristiana.

Non c'è nessuna contraddizione fra apprezzare la vocazione matrimoniale e comprendere la maggior eccellenza della vocazione al celibato propter regnum coelorum (Mt 19, 12). Sono convinto che qualsiasi cristiano capisce perfettamente che queste due cose sono compatibili, se fa in modo di conoscere, accettare e amare l'insegnamento della Chiesa, e se cerca anche di conoscere, accettare e amare la propria vocazione personale. Vale a dire: se ha fede e vive di fede.

Quando scrivevo che il matrimonio è per i soldati non facevo altro che descrivere ciò che è sempre stato nella Chiesa. Sapete che i Vescovi — che formano il Collegio Episcopale, che hanno il Papa come capo e governano con lui tutta la Chiesa — sono scelti fra coloro che vivono il celibato; questo vale anche per le Chiese orientali, dove sono ammessi i presbiteri sposati. Inoltre è facile capire e verificare che i celibi godono di fatto una maggior libertà di cuore e di movimento per dedicarsi stabilmente a dirigere e sostenere attività apostoliche, e questo è vero anche nell'apostolato dei laici. Ciò non vuol dire che gli altri laici non possano svolgere o non svolgano di fatto un apostolato meraviglioso e di primaria importanza: vuole solo dire che esistono diverse funzioni, diversi compiti in posti di diversa responsabilità.

In battaglia — il mio paragone voleva significare solo questo — i soldati non sono meno necessari dello stato maggiore, e possono essere più eroici e meritare più gloria. Insomma: ci sono compiti diversi, e tutti sono importanti e nobili. Quello che importa è soprattutto la corrispondenza di ciascuno alla propria vocazione: per ognuno ciò che è più perfetto è — sempre e solo — compiere la volontà di Dio.

Quindi, un cristiano che si impegna per santificarsi nello stato matrimoniale ed è consapevole della grandezza della propria vocazione, sente spontaneamente una particolare venerazione e un profondo affetto verso quanti sono chiamati al celibato apostolico; e quando, per grazia di Dio, qualcuno dei suoi figli intraprende questo cammino, egli ne prova sincera gioia. E giunge ad amare ancora di più la propria vocazione matrimoniale, che gli ha permesso di offrire a Cristo — il grande Amore di tutti, celibi o sposati — i frutti dell'amore umano.

Nel corso dell'intervista, lei ci ha commentato vari e importanti aspetti della vita umana e in particolare della vita della donna, e ci ha fatto notare in che modo li valuta lo spirito dell'Opus Dei. Potrebbe dirci, per terminare, come pensa che si debba promuovere il ruolo della donna nella vita della Chiesa?

Non nascondo che di fronte a una domanda di questo tipo, sento, contrariamente alla mia abitudine, la tentazione di rispondere in modo polemico, perché ci sono persone che adoperano questa terminologia in maniera clericale, usando la parola Chiesa come sinonimo di qualcosa che appartiene al clero, alla Gerarchia ecclesiastica. Così, per partecipazione alla vita della Chiesa intendono solo o principalmente l'aiuto prestato alla vita parrocchiale, la collaborazione ad associazioni "con mandato" della Gerarchia, l'assistenza attiva alle funzioni liturgiche, e cose del genere.

Coloro che pensano così dimenticano all'atto pratico — anche se forse lo proclamano in teoria — che la Chiesa è la totalità del popolo di Dio, l'assieme di tutti i cristiani; e che pertanto, ovunque un cristiano si sforza di vivere in nome di Gesù Cristo, là è presente la Chiesa.

Con ciò non intendo minimizzare l'importanza della collaborazione che la donna può prestare alla vita della struttura ecclesiastica. La considero anzi imprescindibile. Ho dedicato tutta la vita a difendere la pienezza della vocazione cristiana dei laici (cioè degli uomini e delle donne comuni, che vivono in mezzo al mondo) e a promuovere, pertanto, il pieno riconoscimento teologico e giuridico della loro missione nella Chiesa e nel mondo.

Voglio solo far notare che c'è chi vorrebbe imporre una riduzione ingiustificata di tale collaborazione; e mi preme rilevare che il comune cristiano, sia uomo o donna, può svolgere la propria missione specifica, anche quella che gli spetta all'interno della struttura ecclesiale, solo a condizione di non clericalizzarsi, di continuare cioè ad essere secolare, ad essere persona che con normalità vive nel mondo e partecipa alle vicende del mondo.

Ai milioni di cristiani, uomini e donne, che riempiono la terra, spetta il compito di condurre a Cristo tutte le attività umane, annunciando con la propria vita che Dio ama tutti e tutti vuole salvare. Pertanto, il modo migliore di partecipare alla vita della Chiesa — il più importante, e quello che in ogni caso dev'essere il fondamento di tutti gli altri — è essere integralmente cristiani nel posto assegnato dalla vita, nel posto in cui la vocazione umana ci ha condotti.

Mi commuove pensare a tanti cristiani e a tante cristiane che, forse senza proporselo in modo esplicito, vivono con semplicità la vita ordinaria, cercando di incarnare in essa la Volontà di Dio. Renderli consapevoli di quanto sia eccelsa la loro vita; rivelare loro che ciò che sembra privo di importanza ha un valore di eternità; insegnare ad ascoltare più attentamente la voce di Dio che parla loro attraverso fatti e situazioni, è qualcosa di cui oggi ha urgente necessità la Chiesa, perché a questo la sta spingendo Dio.

Cristianizzare dal di dentro il mondo intero, dimostrando che Gesù ha redento tutta l'umanità: ecco la missione del cristiano. E la donna vi parteciperà nel modo che le è proprio, sia nella casa che nelle varie occupazioni ove realizza le sue capacità peculiari.

La cosa essenziale è dunque che si viva, come Maria Santissima — donna, Vergine e Madre —, al cospetto di Dio, pronunciando quel fiat mihi secundum verbum tuum (Lc 1, 38) da cui dipende la fedeltà alla vocazione personale, sempre unica e intrasferibile, e che ci rende cooperatori dell'opera di salvezza che Dio realizza in noi e nel mondo intero.

Il senso cristiano autentico — che professa la risurrezione della carne — si è sempre opposto, come è logico, alla "disincarnazione", senza tema di essere tacciato di materialismo. È consentito, pertanto, parlare di un "materialismo cristiano", che si oppone audacemente ai materialismi chiusi allo spirito.

Che cosa sono i sacramenti — orme dell'Incarnazione del Verbo, come dissero gli antichi — se non la manifestazione più evidente di questa strada che Dio ha scelto per santificarci e condurci al Cielo? Non vedete che ogni sacramento è l'amore di Dio, con tutta la sua forza creatrice e redentrice, che si dona a noi servendosi di mezzi materiali? Che cos'è questa Eucaristia — ormai imminente — se non il Corpo e il Sangue adorabili del nostro Redentore, che si offre a noi attraverso l'umile materia di questo mondo — vino e pane —, attraverso gli "elementi della natura, coltivati dall'uomo", come l'ultimo Concilio ecumenico ha voluto ricordare? (cfr Gaudium et spes, n. 31).

Si comprende bene, figli miei, perché l'apostolo poteva scrivere: “Tutte le cose sono vostre, voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1 Cor 3, 22—23). Si tratta di un moto ascensionale che lo Spirito Santo, diffuso nei nostri cuori, vuole provocare nel mondo: dalla terra, fino alla gloria del Signore. E perché non ci fosse dubbio che in questo moto si includeva pure ciò che sembra più prosaico, san Paolo scriveva anche: “ Sia che mangiate, sia che beviate, fate tutto per la gloria di Dio ” (1 Cor 10, 31).

Questa dottrina della Sacra Scrittura, che si trova, come sapete, nel cuore stesso della spiritualità dell'Opus Dei, vi deve spingere a realizzare il vostro lavoro con perfezione, ad amare Dio e gli uomini facendo con amore le piccole cose della vostra giornata abituale, scoprendo quel "qualcosa di divino" che è nascosto nei particolari. Vengono a pennello, a questo proposito, i versi del poeta di Castiglia: “Pian pianino, con bella grafia: / ché fare le cose bene / vale più che farle” (Despacito, y buena letra: / El hacer las cosas bien / Importa más que el hacerlas. A. Machado, Poesías completas, 161 [Proverbios y cantares, XXIV] Espasa—Calpe, Madrid 1940).

Vi assicuro, figli miei, che quando un cristiano compie con amore le attività quotidiane meno trascendenti, in esse trabocca la trascendenza di Dio. Per questo vi ho ripetuto, con ostinata insistenza, che la vocazione cristiana consiste nel trasformare in endecasillabi la prosa quotidiana. Il cielo e la terra, figli miei, sembra che si uniscano laggiù, sulla linea dell'orizzonte. E invece no, è nei vostri cuori che si fondono davvero, quando vivete santamente la vita ordinaria…

Vivere santamente la vita ordinaria, vi ho detto. E con queste parole mi riferisco a tutto il programma del vostro agire cristiano. Mettete dunque da parte i sogni, i falsi idealismi, le fantasticherie, tutto quell'atteggiamento che sono solito chiamare "mistica del magari" — magari non mi fossi sposato, magari non avessi questa professione, magari avessi più salute, magari fossi giovane, magari fossi vecchio!… —, e attenetevi piuttosto, con sobrietà, alla realtà più materiale e immediata, perché è proprio lì che si trova il Signore: “Guardate le mie mani e i miei piedi — dice Gesù risuscitato —, sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che ho io” (Lc 24, 39).

Sono molti gli aspetti dell'ambiente secolare in cui vi muovete, che vengono a essere illuminati partendo da queste verità. Pensate, per esempio, alla vostra azione di cittadini nella vita civile. Un uomo consapevole che il mondo — e non solo il tempio — è il luogo del suo incontro con Cristo, ama questo mondo, si sforza di raggiungere una buona preparazione intellettuale e professionale, e va formando — in piena libertà — il proprio criterio sui problemi dell'ambiente in cui opera; e di conseguenza prende le sue decisioni che, essendo decisioni di un cristiano, sono anche frutto di una riflessione personale, umilmente intesa a cogliere la Volontà di Dio in questi particolari piccoli e grandi della vita.

E adesso, figlie e figli miei, permettetemi di soffermarmi su di un altro aspetto — particolarmente toccante — della vita di tutti i giorni. Mi riferisco all'amore umano, l'amore autentico e puro fra un uomo e una donna, il fidanzamento, il matrimonio. Mi preme di dire una volta ancora che questo santo amore umano non è qualcosa di semplicemente consentito o tollerato, accanto alle vere attività dello spirito, come potrebbe sottintendersi in quei falsi spiritualismi cui alludevo dianzi. Sono quarant'anni che sto predicando a viva voce e per iscritto tutto il contrario, e finalmente cominciano a comprenderlo quelli che non lo capivano.

L'amore che conduce al matrimonio e alla famiglia può essere anch'esso un cammino divino, vocazionale, meraviglioso, una strada per la completa dedicazione al nostro Dio. Fate le cose con perfezione, vi ricordavo, mettete amore nelle piccole attività della giornata, scoprite — insisto ancora — quel "qualcosa di divino" nascosto nei particolari: tutta questa dottrina ha speciale applicazione nello spazio vitale in cui si muove l'amore umano.

Lo sapete bene, professori, alunni e tutti voi che dedicate la vostra opera all'Università di Navarra: io ho affidato i vostri affetti più cari a Santa Maria, Madre del Bell'Amore. L'edicola con la sua statua, l'avete qui: l'abbiamo costruita con devozione, in mezzo al campus universitario, perché accolga le vostre preghiere e l'offerta di questo meraviglioso e puro amore, che Lei benedice.

“Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che avete ricevuto da Dio, e che non appartenete quindi a voi stessi?” (1 Cor 6, 19). Quante volte, davanti alla statua della Vergine Santa, Madre del Bell'Amore, voi risponderete con un'affermazione gioiosa a questa domanda dell'Apostolo! Si — direte —, lo sappiamo, Vergine Madre di Dio, e col tuo efficace aiuto vogliamo anche viverlo.

La preghiera contemplativa sgorgherà dal vostro cuore ogni volta che mediterete questa grandiosa verità: una cosa così materiale come il mio corpo è stata prescelta dallo Spirito Santo per stabilirvi la sua dimora, io non appartengo più a me stesso…, il mio corpo e la mia anima — tutt'intero il mio essere — sono di Dio… E questa preghiera sarà feconda di risultati pratici, derivanti dalla grande conseguenza che lo stesso Apostolo suggerisce: “Glorificate Dio nel vostro corpo” (1 Cor 6, 20).