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Ci sono 6 punti in «Colloqui con monsignor Escrivá» il cui argomento è Laici → apostolato specifico .

La missione dei laici, secondo il Concilio, si svolge nella Chiesa e nel mondo. Ci sono in proposito degli equivoci, nati dal fatto che spesso ci si dimentica del primo o del secondo dei due termini. Secondo lei, come si potrebbe spiegare il ruolo dei laici nella Chiesa e il loro ruolo nel mondo?

Penso che bisogna evitare assolutamente l'idea di due funzioni diverse. La partecipazione specifica che spetta ai laici nella missione globale della Chiesa è appunto quella di santificare ab intra — in modo immediato e diretto — le realtà secolari, l'ordine temporale, il mondo.

Allo stesso tempo, oltre a questa funzione propria e specifica, i laici hanno anche, come i chierici e i religiosi, una serie di diritti, di doveri e di facoltà fondamentali, che corrispondono alla condizione giuridica di “fedele” e che hanno logicamente un loro àmbito di esercizio in seno alla società ecclesiastica: la partecipazione attiva alla liturgia della Chiesa, la facoltà di cooperare direttamente all'apostolato specifico della Gerarchia o di consigliarla nella sua attività pastorale, quando si è invitati a farlo, ecc.

Ma queste due funzioni — cioè quella specifica che spetta al laico come “laico”, e quella generica che gli spetta come “fedele” — non sono funzioni opposte, ma sovrapposte; e fra esse non vi è contraddizione, bensì complementarità. Sarebbe assurdo pensare solo alla missione specifica dei laici dimenticando che essi sono allo stesso tempo dei fedeli: sarebbe come concepire un ramo frondoso e fiorito che non appartenesse a nessun albero. Viceversa, dimenticare ciò che è specifico, proprio e peculiare dei laici, o non comprendere adeguatamente le caratteristiche del loro lavoro apostolico secolare e il suo valore ecclesiale, sarebbe come immaginare l'albero frondoso della Chiesa ridotto alla figura mostruosa di un semplice tronco.

Il decreto Apostolicam actuositatem (n. 5) ha affermato chiaramente che l'animazione cristiana dell'ordine temporale è compito di tutta la Chiesa. È pertanto un lavoro che spetta a tutti: alla Gerarchia, al clero, ai religiosi e ai laici. Potrebbe dirci quali sono, secondo lei, il ruolo e le modalità d'azione di ciascuno di questi settori ecclesiali nell'unica missione comune?

In realtà, la risposta la troviamo negli stessi testi conciliari. Alla Gerarchia spetta il compito di indicare, come parte del suo Magistero, i princìpi dottrinali che devono presiedere e illuminare lo svolgimento di questa impresa apostolica (cfr cost. Lumen gentium, n. 28; cost. Gaudium et spes, n. 43; decr. Apostolicam actuositatem, n. 24).

Ai laici, che lavorano immersi in tutte le situazioni e in tutte le strutture proprie della vita secolare, corrisponde in modo specifico l'opera “immediata” e “diretta” di ordinare le realtà temporali secondo i princìpi dottrinali enunciati dal Magistero; allo stesso tempo, però, essi svolgono questo compito con una necessaria autonomia personale rispetto alle decisioni particolari che devono adottare nelle circostanze concrete della vita sociale, famigliare, politica, culturale e così via (cfr cost. Lumen gentium, n. 31; cost. Gaudium et spes, n. 43; decr. Apostolicam actuositatem, n. 7).

Quanto ai religiosi, i quali si separano dalle realtà e attività secolari adottando uno stato di vita peculiare, la loro missione consiste nel dare una testimonianza escatologica pubblica, che sia di aiuto agli altri fedeli del Popolo di Dio perché ricordino che non hanno su questa terra una dimora permanente (cfr cost. Lumen gentium, n. 44; decr. Perfectae caritatis, n. 5). Non va dimenticato però il grande contributo fornito all'animazione cristiana dell'ordine temporale dalle numerose opere di beneficenza, di carità e di assistenza sociale promosse con abnegazione e spirito di sacrificio da tanti religiosi e religiose.

In qualche occasione, parlando della realtà dell'Opus Dei, lei ha affermato che si tratta di una “disorganizzazione organizzata”. Potrebbe spiegare ai nostri lettori il significato di questa espressione?

Intendo dire che noi attribuiamo un'importanza primaria e fondamentale alla “spontaneità apostolica della persona”, alla sua libera e responsabile iniziativa, sotto la guida dello Spirito; e non alle strutture organizzative, agli ordini, alle tattiche, e ai programmi imposti dall'alto, in sede di governo.

Un minimo di organizzazione esiste, logicamente: c'è un organo direttivo centrale, che funziona sempre collegialmente e ha la sede a Roma, e ci sono degli organi regionali, anch'essi collegiali, presieduti da un Consigliere2 (vedi nota in calce al paragrafo). Ma tutto il lavoro di questi organismi tende essenzialmente a una sola meta: fornire ai soci l'assistenza spirituale necessaria per la loro vita di pietà, e una adeguata preparazione spirituale, dottrinale e umana. Poi, ciascuno impari a nuotare! Agisca cioè come vero cristiano per santificare le vie degli uomini, perché tutte hanno il profumo del passaggio di Dio.

Arrivato dunque a questo limite, l'Opus Dei come tale ha esaurito il suo compito — quello stesso per cui i soci si sono associati —, e non ha più nessun'altra indicazione da dare: non può e non deve farlo. Da quel momento comincia la libera e responsabile azione personale di ciascuno dei soci. Ognuno — con spontaneità apostolica, agendo con piena libertà e formandosi con autonomia la propria coscienza di fronte alle decisioni concrete che deve prendere — ognuno, dico, si sforza di tendere alla perfezione cristiana e di dare una testimonianza cristiana nel proprio ambiente, santificando il proprio lavoro manuale o intellettuale. Naturalmente dal momento che ciascuno prende con autonomia queste decisioni nella sua vita secolare, nelle realtà temporali in cui agisce, si osservano spesso opzioni, criteri e modi di agire diversi: in altri termini, si produce questa benedetta “disorganizzazione”, questo giusto e necessario pluralismo che è una caratteristica essenziale del buono spirito dell'Opus Dei, e che a me è sembrato sempre l'unico modo retto e giusto di concepire l'apostolato dei laici.

Le dirò di più: questa “disorganizzazione organizzata” appare anche nelle stesse opere d'apostolato che l'Opus Dei promuove come tale, nell'intento di contribuire — anche sul piano associativo — a risolvere cristianamente i problemi che si pongono alle comunità umane dei diversi Paesi. Queste attività e iniziative dell'Opera hanno, sempre, un carattere direttamente apostolico: sono cioè opere educative, assistenziali o di beneficenza. Ma dato che è proprio del nostro spirito stimolare lo scaturire di iniziative “dalla base”, e dato anche che le circostanze, i bisogni e le possibilità di ogni nazione o gruppo sociale sono peculiari e generalmente assai diversi da un caso all'altro, la direzione centrale dell'Opus Dei lascia alle direzioni regionali (che godono di un'autonomia pressoché totale) la responsabilità di determinare, promuovere e organizzare le attività apostoliche che ritengono più opportune: può trattarsi di un centro d'istruzione superiore o di un collegio universitario, come pure di un ambulatorio medico o di una scuola agraria. Come logico risultato, disponiamo di un molteplice e variopinto mosaico di attività: un mosaico “organizzatamente disorganizzato”.

In base a quanto ha detto, come si inserisce, secondo lei, la realtà ecclesiale dell'Opus Dei nell'azione pastorale di tutta la Chiesa? E come nell'ecumenismo?

Mi pare opportuno anzitutto un chiarimento. L'Opus Dei non è, né può essere considerato, un fenomeno relativo al processo evolutivo dello “stato di perfezione” nella Chiesa; non è una forma moderna o “aggiornata” di questo stato. In effetti la spiritualità e il fine apostolico che Dio ha voluto per la nostra Opera non hanno nulla a che fare con la concezione teologica dello status perfectionis (che san Tommaso, Suárez e altri autori hanno configurato dottrinariamente in termini definitivi), né con le diverse concretizzazioni giuridiche che sono o possono essere derivate da questo concetto teologico. Una completa esposizione dottrinale in materia sarebbe lunga; ma basti considerare che all'Opus Dei non interessano per i suoi soci, né voti, né promesse, né alcuna forma di consacrazione che non sia quella che tutti hanno già ricevuto con il Battesimo. L'Opus Dei non pretende in nessun modo che i soci cambino di stato, cioè che passino dalla condizione di semplici fedeli (uguali a tutti gli altri) alla speciale condizione dello status perfectionis. È vero il contrario: ciò che l'Opera desidera e promuove è che ciascuno svolga l'apostolato e si santifichi nel proprio stato, nello stesso posto e nella stessa condizione che ha nella Chiesa e nella società civile. Non spostiamo nessuno da dove si trova, non allontaniamo nessuno dal suo lavoro, dai suoi impegni, dai suoi legittimi legami di ordine temporale.

La realtà sociale dell'Opus Dei, la sua spiritualità e la sua azione si inseriscono quindi in un filone della vita della Chiesa ben diverso, e cioè nel processo teologico e vitale che sta conducendo il laicato alla piena assunzione delle sue responsabilità ecclesiali, al modo che gli è proprio di prendere parte alla missione di Cristo e della sua Chiesa. È stata e rimane questa, nei quasi quarant'anni di vita dell'Opus Dei, la preoccupazione costante, serena ma forte, con cui Dio ha voluto orientare, nella mia anima e in quella dei miei figli, il desiderio di servirlo.

Qual è il contributo dell'Opus Dei a questo processo? Forse non è questo il momento storico più adeguato per una valutazione globale di tale genere. Benché si tratti di problemi di cui molto si è occupato il Concilio Vaticano II (con grande gioia per il mio spirito), e benché il Magistero abbia confermato e illuminato a sufficienza non pochi concetti e non poche situazioni relative alla vita e alla missione del laicato, resta però un notevole nucleo di questioni che rappresentano tuttora, per la generalità della dottrina, dei veri problemi limite della teologia. A noi, nell'ambito della spiritualità che Dio ha dato all'Opus Dei e che ci sforziamo di praticare fedelmente (malgrado le nostre personali imperfezioni), sembra già divinamente risolta la maggior parte di tali questioni in discussione, ma non pretendiamo di presentare queste soluzioni come “le uniche” possibili.

Ci sono poi altri aspetti dello stesso processo di sviluppo ecclesiologico che rappresentano mirabili conquiste dottrinali, alle quali Dio ha voluto, indubbiamente, che contribuisse — e in misura notevole, direi — la testimonianza offerta dalla spiritualità e dalla vita dell'Opus Dei, assieme a quella, non meno benemerita, di altre iniziative e istituzioni apostoliche. Ma queste conquiste dottrinali dovranno forse attendere parecchio tempo prima di diventare parte integrante della vita “totale” del Popolo di Dio. Lei stesso accennava, nelle domande precedenti, ad alcuni di questi aspetti: lo sviluppo di un'autentica spiritualità laicale; la comprensione del peculiare ruolo ecclesiale — non “ecclesiastico” o ufficiale — proprio del laico; la chiarificazione dei diritti e dei doveri che il laico ha in quanto laico; i rapporti fra Gerarchia e laicato; la pari dignità e la complementarità di funzioni dell'uomo e della donna nella Chiesa; il bisogno di un'ordinata opinione pubblica nel Popolo di Dio, e così via.

Tutto ciò rappresenta evidentemente una realtà molto fluida, e talvolta non esente da paradossi. La stessa cosa che, detta quarant'anni fa, faceva scandalizzare tutti o quasi tutti, oggi non fa meraviglia a nessuno: però sono ancora ben pochi a comprenderla a fondo e a praticarla rettamente.

Mi spiegherò meglio con un esempio. Nel 1932, commentando ai miei figli dell'Opus Dei alcuni degli aspetti e delle conseguenze della peculiare dignità e della responsabilità che il Battesimo conferisce alle persone, scrivevo loro in un documento: “Va respinto il pregiudizio secondo cui i comuni fedeli non possono far altro che prestare il proprio aiuto al clero, in attività ecclesiastiche. Non si comprende perché l'apostolato dei laici debba sempre limitarsi a una semplice partecipazione all'apostolato gerarchico. Essi stessi hanno il dovere di esercitare l'apostolato. E non perché ricevano una missione canonica, ma perché sono parte della Chiesa; la loro missione […] la assolvono attraverso la professione, il mestiere, la famiglia, i colleghi e gli amici”.

Oggi, dopo i solenni insegnamenti del Vaticano II, nessuno nella Chiesa metterà in discussione, immagino, l'ortodossia di questa dottrina. Ma quanti hanno abbandonato davvero quell'unico concetto dell'apostolato dei laici come di una attività pastorale “organizzata dall'alto”? Quanti hanno superato la vecchia concezione “monolitica” dell'apostolato laicale e capiscono che esso può e anzi deve realizzarsi anche senza bisogno di rigide strutture centralizzate, di missioni canoniche e di mandati gerarchici? E quanti definiscono il laicato la longa manus Ecclesiae, non stanno forse confondendo il concetto della Chiesa come Popolo di Dio con il concetto più ristretto di Gerarchia? O ancora, quanti laici riescono a capire bene che solo rimanendo in stretta comunione con la Gerarchia hanno diritto a rivendicare il loro legittimo àmbito di autonomia apostolica?

Considerazioni dello stesso genere potrebbero farsi a proposito di altre questioni, perché è davvero molto, anzi moltissimo ciò che resta ancora da fare, sia nella necessaria esposizione dottrinale che nell'educazione delle coscienze e nella stessa riforma della legislazione ecclesiastica. Io prego insistentemente il Signore — la preghiera è sempre stata la mia forza — che lo Spirito Santo assista il suo Popolo, e specialmente la Gerarchia, nella realizzazione di questi compiti. E prego pure perché continui a servirsi dell'Opus Dei, in modo da poter contribuire anche noi, per quanto possiamo, a questo difficile ma meraviglioso processo di sviluppo e di crescita della Chiesa.

Lei mi domandava anche “come si inserisce l'Opus Dei nell'ecumenismo”. Già l'anno scorso ebbi a raccontare a un giornalista francese — e so che l'aneddoto ha avuto una certa eco, anche in pubblicazioni dei nostri fratelli separati — quello che dissi una volta al Santo Padre Giovanni XXIII, incoraggiato dal fascino affabile e paterno della sua persona: “Padre Santo, nella nostra Opera tutti gli uomini, siano o no cattolici, hanno trovato sempre accoglienza: non ho imparato l'ecumenismo da Vostra Santità”. Egli rise commosso, perché sapeva che, fin dal 1950, la Santa Sede aveva autorizzato l'Opus Dei ad accogliere come associati cooperatori i non cattolici e perfino i non cristiani.

E in effetti sono parecchi — né mancano fra di loro dei pastori e addirittura dei vescovi delle rispettive confessioni — i fratelli separati che si sentono attratti dallo spirito dell'Opus Dei e collaborano ai nostri apostolati. E sono ogni giorno più frequenti — man mano che si intensificano i contatti — le manifestazioni di simpatia e di intesa cordiale che nascono dal fatto che i membri dell'Opus Dei hanno come cardine della loro spiritualità il semplice proposito di dare responsabile attuazione agli impegni e alle esigenze battesimali del cristiano. Il desiderio di tendere alla santità cristiana e di praticare l'apostolato, procurando la santificazione del proprio lavoro professionale; il vivere immersi nelle realtà secolari rispettando la loro autonomia, ma trattandole con lo spirito e l'amore delle anime contemplative; il primato che nell'organizzazione delle nostre attività diamo alla persona, all'azione dello Spirito nelle anime, al rispetto della dignità e della libertà che nascono dalla filiazione divina del cristiano; la difesa — contro la concezione monolitica e istituzionalistica dell'apostolato dei laici — della legittima capacità di iniziativa, nel necessario rispetto del bene comune: questi e altri aspetti del nostro modo di essere e di lavorare sono punti di facile incontro, dove i fratelli separati scoprono — in forma vissuta e con la conferma degli anni — gran parte dei presupposti dottrinali sui quali sia loro che noi cattolici abbiamo posto tante fondate speranze ecumeniche.

Riferimenti alla Sacra Scrittura
Note
2

Ricordiamo ancora quanto si è detto nella Nota Editoriale di questo libro circa alcune risposte concernenti aspetti giuridici e organizzativi, precise e corrette in momenti in cui l'Opus Dei non aveva ancora ricevuto la definitiva configurazione giuridica desiderata dal fondatore, e che oggi occorre integrare con la sintetica spiegazione che si dà nella stessa Nota Editoriale. L'unica variazione che andrebbe del resto introdotta in questa risposta è di mero ordine terminologico: anziché Consigliere, Vicario regionale. Resta pienamente in vigore tutto quanto mons. Escrivá afferma sullo spirito con cui nell'Opus Dei viene esercitata la direzione.