Elenco di punti

Ci sono 3 punti in «È Gesù che passa» il cui argomento è Responsabilità → responsabilità nel lavoro.

Per raggiungere questo stile di vita e santificare la professione, è necessario anzitutto lavorare bene, con serietà umana e soprannaturale. A questo punto voglio ricordarvi, per contrasto, un vecchio racconto tratto dai vangeli apocrifi: Il padre di Gesù, che era falegname, fabbricava aratri e gioghi. Una volta gli fu incaricato un letto per una certa persona di buona posizione. Ma, intrapreso il lavoro, accadde che una delle assi riuscisse più corta dell'altra, e Giuseppe non sapeva che fare. Allora Gesù bambino disse a suo padre: colloca in terra le due assi e livellale a una delle estremità. E così fece Giuseppe. Gesù si mise dall'altra parte, prese l'asse più corta e la tirò, finché raggiunse la lunghezza dell'altra. Giuseppe, suo padre, rimase ammirato del prodigio e coprì il bambino di baci e di abbracci, dicendo: « Me felice, perché Dio mi ha dato questo bambino » (Vangelo dell'infanzia, falsamente attribuito all'apostolo Tommaso, n. 13). No, Giuseppe non ringraziava Dio per queste cose; il suo lavoro non poteva essere di quel tipo. San Giuseppe non era l'uomo dalle soluzioni facili e miracolistiche; era uomo perseverante, tenace e — all'occorrenza — ingegnoso.

Il cristiano sa che Dio fa miracoli: li ha compiuti secoli fa, ha continuato a compierli e li compie tuttora, perché la mano del Signore non è troppo corta (Is 59, 1). Ma i miracoli sono una manifestazione della potenza salvifica di Dio, e non un espediente per risolvere le conseguenze della nostra inettitudine o per agevolare la nostra comodità. Il miracolo che il Signore vi chiede è la perseveranza nella vostra vocazione cristiana e divina e la santificazione del lavoro d'ogni giorno: il miracolo di trasformare la prosa quotidiana in versi epici, in virtù dell'amore con cui svolgete la vostra occupazione abituale. È là che Dio vi attende, chiamandovi a essere anime dotate di senso di responsabilità, ricche di zelo apostolico e professionalmente competenti.

Pertanto, volendo dare un motto al vostro lavoro, potrei indicarvi questo: Per servire, servire. In primo luogo, infatti, per realizzare le cose bisogna saperle condurre a termine. Non credo alla rettitudine di intenzione di chi non si sforza di ottenere la competenza necessaria per svolgere debitamente i compiti che gli sono affidati. Non basta voler fare il bene; è necessario saperlo fare. E, se il nostro volere è sincero, deve tradursi nell'impegno di impiegare i mezzi adeguati per compiere le cose fino in fondo, con perfezione umana.

Ma anche questo servizio umano, questa idoneità che potremmo chiamare tecnica, questo saper fare il proprio mestiere, deve essere dotato di una caratteristica che fu fondamentale nel lavoro di Giuseppe e che tale dovrebbe essere anche per ogni cristiano: lo spirito di servizio, il desiderio di lavorare per contribuire al bene comune. Il lavoro di Giuseppe non tendeva all'affermazione di sé, anche se effettivamente la dedizione a una vita di lavoro gli aveva dato una personalità matura e spiccata. Il Patriarca lavorava con la consapevolezza di compiere la volontà di Dio, pensando al bene dei suoi — Gesù e Maria — e avendo presente il bene di tutti gli abitanti della piccola Nazaret.

A Nazaret Giuseppe doveva essere uno dei pochi artigiani del villaggio, o forse l'unico. Probabilmente era falegname. Ma, come accade nei piccoli paesi, doveva essere capace di fare anche altre cose: rimettere in funzione il mulino, o riparare prima dell'inverno le crepe di un tetto. Giuseppe, indubbiamente, con un lavoro ben fatto, risolveva le difficoltà di molta gente. La sua attività professionale era orientata al servizio degli altri, a rendere più gradevole la vita delle famiglie del villaggio; ed era certamente accompagnata da un sorriso, da una parola opportuna, da uno di quei commenti fatti di sfuggita, ma che servono a ridare la fede e la gioia a chi sta per perderle.

Quando il cristiano, com'è suo dovere, lavora, non deve sfuggire le esigenze proprie della natura. Se con la frase benedire le attività umane si volesse eludere la loro dinamica propria, mi rifiuterei di usare l'espressione. A me personalmente non convince per niente il fatto che le comuni attività degli uomini portino come etichetta inautentica una qualifica confessionale. Mi sembra infatti — ma rispetto l'opinione contraria — che si corra il pericolo di nominare invano il nome santo della nostra fede; per di più, non sono mancate occasioni in cui l'etichetta cattolica è stata utilizzata per coprire atteggiamenti e operazioni non del tutto onesti.

Dal momento che, eccettuando il peccato, il mondo e quanto vi è in esso è buono, perché è opera di Dio Nostro Signore, il cristiano, conducendo costantemente una lotta positiva d'amore per non offendere Dio, deve impegnarsi in tutte le attività terrene, gomito a gomito con i suoi simili, e deve difendere tutti i beni che la dignità della persona porta con sé. Ne esiste uno che bisogna sempre ricercare in modo particolare: la libertà personale. Solo quando si difende la libertà individuale degli altri, pur esigendo la corrispondente responsabilità personale, è possibile difendere onestamente e cristianamente la propria libertà. Torno a ripetere, e ripeterò sempre, che il Signore, che ci ha fatto gratuitamente un grande dono soprannaturale — la grazia divina — ci ha dato anche un gran bene naturale: la libertà personale, che per non corrompersi e diventare libertinaggio, ci richiede integrità, impegno efficace di comportarci secondo la legge divina, perché dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà (2 Cor 3, 17).

Il Regno di Cristo è regno di libertà: in esso non vi sono altri servi all'infuori di coloro che liberamente si incatenano per Amore a Dio. Benedetta schiavitù d'amore che ci fa liberi! Senza libertà è impossibile corrispondere alla grazia, ed è quindi impossibile darci liberamente al Signore per il più soprannaturale dei motivi: perché ne abbiamo voglia.

Quanti di voi mi conoscono da più anni, possono essermi testimoni che ho sempre predicato il criterio della libertà personale e della corrispondente responsabilità. Ho cercato e cerco la libertà, per tutta la terra, come Diogene cercava l'uomo. L'amo ogni giorno di più, l'amo al di sopra di tutte le cose terrene: è un tesoro che non apprezzeremo mai abbastanza.

Per me, parlare di libertà personale non è un pretesto per trattare altre questioni, forse molto legittime, ma che non appartengono al mio compito di sacerdote. So che non tocca a me trattare i temi secolari e contingenti, propri della sfera temporale e civile, che il Signore ha affidato alla libera e serena discussione degli uomini. So anche che le labbra del sacerdote, evitando ogni partigianeria umana, devono aprirsi soltanto per condurre le anime a Dio, alla sua dottrina spirituale di salvezza, ai Sacramenti che Gesù ha istituito, alla vita interiore che ci avvicina al Signore nella consapevolezza di essere suoi figli e quindi fratelli di tutti gli uomini, senza eccezione alcuna.

Celebriamo oggi la festa di Cristo Re e senza sconfinare dal mio ambito di sacerdote vi dico che se qualcuno intendesse il regno di Cristo come un programma politico non avrebbe approfondito la finalità soprannaturale della fede e non sarebbe lontano dal gravare le coscienze con oneri che non sono quelli di Gesù, perché il suo giogo è dolce e il suo carico leggero (Mt 11, 30). Amiamo veramente tutti gli uomini. E amiamo soprattutto Cristo. Allora non potremo far altro che amare la legittima libertà degli altri, in una pacifica e ragionevole convivenza.

Riferimenti alla Sacra Scrittura