L'Epifania del Signore

Non molto tempo fa, ho avuto occasione di ammirare un rilievo in marmo che rappresentava l'adorazione dei Magi al Dio Bambino. Gli facevano corona altri rilievi raffiguranti quattro angeli, ognuno con un simbolo: un diadema, il mondo coronato dalla croce, una spada, uno scettro. In questo modo plastico, utilizzando segni ben noti, si è voluto illustrare l'avvenimento che oggi commemoriamo: alcuni sapienti — la tradizione dice che erano dei re — si prostrano davanti a un Bambino, dopo aver domandato a Gerusalemme: Dov'è il re dei giudei che è nato? (Mt 2, 2).

Anch'io, spinto da questa domanda, contemplo ora Gesù adagiato in una mangiatoia (Lc 2, 12), cioè in un posto adatto solo agli animali. Dove sono, Signore, la tua regalità, il diadema, la spada, lo scettro? Gli appartengono, ma non ne fa uso; regna avvolto in fasce. È un re che appare a noi inerme, indifeso; un piccolo bambino. Come non ricordare le parole dell'Apostolo: Spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo?(Fil 2, 7).

Il Signore nostro si è incarnato per manifestarci la volontà del Padre, e ci ammaestra fin dalla culla. Gesù ci cerca — con vocazione che è vocazione alla santità — affinché assieme a Lui portiamo a compimento la Redenzione. Ascoltiamo il suo primo insegnamento: dobbiamo corredimere cercando non il trionfo sul nostro prossimo, ma su noi stessi. A imitazione di Cristo, dobbiamo annullarci e metterci al servizio degli altri, per condurli a Dio.

Dov'è il re? Dove cercarlo se non là dove vuole regnare, cioè nel cuore, nel tuo cuore? Per questo si fa bambino: chi non ama infatti una piccola creatura? Dov'è allora il re, il Cristo che lo Spirito Santo cerca di formare nella nostra anima? Non può essere di certo nella superbia che ci separa da Dio, non nella mancanza di carità che ci isola. Lì Cristo non c'è; lì l'uomo resta solo.

Ai piedi di Gesù Bambino, nel giorno dell'Epifania, davanti a un Re che non porta segni esterni di regalità, noi diciamo: Signore, strappa la superbia dalla mia vita, distruggi il mio amor proprio, la mia smania di affermazione, di impormi sugli altri. Fa' che l'identificazione con te sia il fondamento della mia personalità.

La meta non è facile: identificarsi con Cristo. Ma neppure è difficile, se viviamo come il Signore ci ha insegnato: cioè se facciamo quotidiano ricorso alla sua Parola e impregniamo la nostra vita della realtà sacramentale — l'Eucaristia — che Egli ci ha lasciato in alimento, perché la condizione del cristiano sulla terra è quella del viandante. Dio ci ha chiamati con inequivocabile chiarezza. Come i Magi, anche noi abbiamo scoperto nel cielo dell'anima la stella che ci guida e illumina.

Abbiamo visto la sua stella in Oriente, e siamo venuti ad adorarlo (Mt 2, 2). Tale è anche la nostra esperienza. Anche noi abbiamo notato che nell'anima, a poco a poco, si accendeva una luce nuova: il desiderio di essere pienamente cristiani; l'ansia, direi, di prendere Dio sul serio. Se ognuno di noi volesse ora raccontare ad alta voce l'intimo sviluppo della sua vocazione soprannaturale, tutti riconosceremmo che è stata una cosa divina. Ringraziamo Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo, e Maria Santissima, dalla cui mediazione ci vengono tutte le benedizioni del Cielo, del dono che, assieme a quello della fede, è il più grande che il Signore può concedere a una creatura: il dono di un impulso efficace per giungere alla pienezza della carità, convinti che è necessario — e non solo possibile — raggiungere la santità anche in mezzo alle attività professionali, sociali…

Guardate con quanta delicatezza ci invita il Signore; si esprime con parole umane, come un innamorato: Io ti ho chiamato per nome, tu mi appartieni (Is 43, 1). Dio, che è la bellezza, la grandezza, la sapienza, ci annuncia che gli apparteniamo, che siamo stati scelti come oggetto del suo amore infinito. È necessaria una forte vita di fede per non sciupare questa meraviglia che la Provvidenza divina affida alle nostre mani: ci vuole una fede come quella dei Magi, che ci faccia convinti che né deserto, né tempeste, né la quiete delle oasi ci impediranno di giungere alla meta della Betlemme eterna, della vita definitiva in Dio.

Un cammino di fede è un cammino di sacrificio. La vocazione cristiana non ci toglie dal nostro posto, ma esige che abbandoniamo tutto ciò che è di ostacolo al volere divino. La luce che si accende non è che l'inizio: dobbiamo seguirla, se vogliamo che quella luce divenga stella e poi sole. Finché i Magi sono in Persia — scrive san Giovanni Crisostomo — non vedono che una stella; ma quando abbandonano la loro patria, vedono il sole stesso di giustizia. Non avrebbero più visto nemmeno la stella se fossero rimasti nel loro paese. Affrettiamoci perciò anche noi; e anche se tutti volessero impedircelo, corriamo alla casa di questo Bambino (SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, In Matthaeum homiliae, 6, 5 [PG 57, 78]).

Abbiamo visto la sua stella in Oriente, e siamo venuti ad adorarlo. All'udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme (Mt 2, 2-3). Ancora oggi si ripete questa scena. Davanti alla grandezza di Dio, davanti alla decisione pienamente umana e profondamente cristiana di vivere in modo coerente la propria fede, non mancano coloro che, sconcertati, si meravigliano o addirittura si scandalizzano. Sembra che non concepiscano altra realtà che quella che rientra nei loro limitati orizzonti terreni. Davanti alle prove di generosità di quanti hanno ascoltato la chiamata del Signore, sorridono con un senso di superiorità, si spaventano o — in alcuni casi veramente patologici — concentrano tutti i loro sforzi per impedire la santa decisione che una coscienza ha preso in piena libertà.

Io ho assistito, in più di una occasione, a ciò che potrei chiamare una mobilitazione generale contro chi aveva deciso di dedicare tutta la vita al servizio di Dio e degli uomini. Vi sono delle persone convinte che il Signore non può scegliere chi vuole Lui, secondo il suo beneplacito, senza chiedere il loro permesso; o convinte che l'uomo non è capace di piena libertà per rispondere di sì all'Amore o respingerlo. La vita soprannaturale delle singole anime è qualcosa di secondario per chi ragiona in questo modo. Ritengono che essa meriti attenzione solamente dopo che sono state soddisfatte fin le più piccole comodità e tutti gli egoismi umani. Se così fosse, che cosa resterebbe del cristianesimo? Le parole di Gesù, amorose e allo stesso tempo esigenti, sono solo da ascoltare o anche da mettere in pratica? Egli ha detto: Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5, 48).

Il Signore si rivolge a tutti gli uomini perché tutti gli vadano incontro, perché tutti siano santi. Non chiama soltanto i Magi, uomini saggi e potenti; prima aveva inviato ai pastori di Betlemme non già una stella, ma uno dei suoi angeli (cfr Lc 2, 9). Ma tutti, poveri o ricchi, sapienti o meno, devono maturare nell'anima la disposizione umile che permette di ascoltare la voce di Dio.

Pensate a Erode: è un potente della terra, e ha la possibilità di servirsi della collaborazione dei sapienti. Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia (Mt 2, 4). Ma la sua potenza e la sua scienza non lo portano a riconoscere Dio. Per il suo cuore indurito, potere e scienza sono strumenti di malizia, di desiderio vano di annientare Dio, di disprezzo per la vita di un pugno di bambini innocenti.

Continuiamo a leggere il santo Vangelo. Gli risposero: « A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele » (Mt 2, 5). Non possiamo sorvolare su questi particolari della misericordia divina: colui che veniva a redimere il mondo nasce in un villaggio sperduto. Ma Dio — ci ripete insistentemente la Scrittura — non fa discriminazione di persone (cfr 2 Cr 19, 7; Rm 2, 11; Ef 6, 9; Col 3, 25; ecc.). Per invitare un'anima a una vita di piena coerenza con la fede non considera i suoi meriti, la nobiltà della famiglia, l'altezza della sua coscienza. La vocazione precede tutti i meriti: La stella che avevano visto in Oriente li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il Bambino (Mt 2, 9).

La vocazione precede ogni cosa; prima ancora di poterci rivolgere a Lui, Dio ci ama e suscita in noi l'amore con il quale corrispondergli. La paterna bontà di Dio ci viene incontro (cfr Sal 78, 8). Nostro Signore non soltanto è giusto; Egli è molto di più: è misericordioso. Non aspetta che ci rivolgiamo a Lui; ci previene con segni palesi di affetto paterno.

La vocazione è la prima realtà e, come la stella, splende davanti a noi e prima che noi fossimo, per orientarci nel nostro cammino di amore a Dio; quindi non è ragionevole nutrire dei dubbi se mai qualche volta ci nascondesse la sua luce. In determinati momenti della nostra vita interiore, quasi sempre per colpa nostra, può capitare quello che accadde ai Magi nel loro viaggio: la stella scompare. Conosciamo ormai lo splendore divino della nostra vocazione e siamo persuasi del suo carattere definitivo; ma forse la polvere che solleviamo nel camminare — la polvere delle nostre miserie — forma una spessa nube che impedisce alla luce di filtrare.

Che fare, allora? Seguire l'esempio di quegli uomini santi: domandare. Erode si servì della scienza per comportarsi ingiustamente; i Magi l'utilizzano per operare il bene. Ma noi cristiani non abbiamo bisogno di chiedere nulla a Erode e ai sapienti della terra. Cristo ha dato alla sua Chiesa la sicurezza della dottrina e il flusso ininterrotto della grazia dei Sacramenti; ha disposto inoltre che vi siano persone capaci di orientare, di guidare, di riproporre costantemente il cammino. Possiamo disporre di un tesoro infinito di scienza: la parola di Dio, custodita nella Chiesa; la grazia di Cristo, che viene data nei Sacramenti; la testimonianza e l'esempio di chi vive rettamente vicino a noi, di chi ha saputo costruire con la sua vita un cammino di fedeltà a Dio.

Permettetemi un consiglio: se qualche volta perdeste la chiarezza della luce, ricorrete sempre al buon pastore. Chi è il buon pastore? Colui che entra dalla porta della fedeltà alla dottrina della Chiesa; colui che non si comporta come il mercenario che vedendo venire il lupo, abbandona le pecore e fugge; e il lupo le assale e disperde il gregge (cfr Gv 10, 1-21). Badate che la Parola divina non è vana; e l'insistenza di Cristo — non vedete con quale sollecitudine parla di pastori e di pecore, dell'ovile e del gregge? — è una dimostrazione pratica della necessità di una buona guida per la nostra anima.

Se non ci fossero cattivi pastori — scrive sant'Agostino — Egli non avrebbe usato il qualificativo "buono". E chi è il mercenario? Colui che fugge, se vede il lupo; colui che cerca la sua gloria, non la gloria di Cristo; colui che non ha il coraggio di riprendere con libertà di spirito i peccatori. Il lupo azzanna una pecora e la trascina per il collo; il diavolo induce un fedele a commettere adulterio. E tu taci, non riprendi. Tu sei mercenario; hai visto venire il lupo e sei fuggito. Forse egli dirà: no, sono qui, non sono fuggito. No, rispondo, sei fuggito perché hai taciuto; e hai taciuto perché hai avuto paura (SANT’AGOSTINO, In Ioannis Evangelium tractatus, 46, 8 [PL 35, 1732]).

La sposa di Cristo ha sempre manifestato la sua santità — e oggi non meno di ieri — grazie all'abbondanza di buoni pastori. Non dimentichiamo però che la fede cristiana ci insegna a essere semplici, ma non ingenui. Ci sono dei mercenari che tacciono e altri che dicono parole che non sono di Cristo. Pertanto, se il Signore permette che restiamo nell'oscurità, sia pure in cose piccole, se sentiamo che la nostra fede è insicura, ricorriamo al buon pastore. Ritorniamo a colui che entra dalla porta, esercitando il suo diritto; a colui che, dando la sua vita per gli altri, vuole essere, nella parola e nella condotta, un'anima innamorata; a colui che è fors'anche un peccatore, ma un peccatore che confida sempre nel perdono e nella misericordia di Cristo.

Se la coscienza vi rimprovera qualche mancanza — anche se non vi sembra grave — ricorrete, nel dubbio, al Sacramento della Penitenza. Recatevi dal sacerdote che può aver cura di voi, che sa esigere da voi fede vigorosa, delicatezza d'animo, vera fortezza cristiana. Nella Chiesa esiste piena libertà di confessarsi da qualunque sacerdote che ne abbia ricevuto la facoltà; ma un cristiano di visione chiara ricorrerà — liberamente — a colui che riconosce come buon pastore, a colui che può aiutarlo a elevare lo sguardo e a ritrovare lassù la stella del Signore.

Videntes autem stellam, gavisi sunt gaudio magno valde (Mt 2, 10); così il testo latino, con quell'ammirevole ripetizione: hanno scoperto nuovamente la stella e gioiscono di grandissima gioia. Perché tanta letizia? Perché essi, che non avevano mai dubitato, ricevono dal Signore la prova che la stella non era scomparsa: non potevano più contemplarla sensibilmente, ma l'avevano conservata sempre nell'anima. Tale è anche la vocazione del cristiano: se non si perde la fede e si mantiene la speranza in Gesù Cristo, che sarà con noi fino alla consumazione dei secoli (Mt 28, 20), la stella riappare. E quando si comprova una volta di più la realtà della vocazione, nasce, più grande che mai, una gioia che aumenta in noi la fede, la speranza e l'amore.

Entrati nella casa, videro il Bambino con Maria, sua Madre, e prostratisi lo adorarono (Mt 2, 11). Ci inginocchiamo anche noi dinanzi a Gesù, al Dio nascosto nell'umanità: gli ripetiamo che non vogliamo voltare le spalle alla sua divina chiamata, che non ci allontaneremo mai da Lui, che toglieremo dal nostro cammino tutto ciò che è di ostacolo alla fedeltà, che desideriamo sinceramente essere docili alle sue ispirazioni. Tu, nel tuo intimo, e io con te — perché anch'io faccio la mia orazione interiore, con grida profonde e silenziose — stiamo dicendo al Bambino che desideriamo compiere la sua volontà, come quei servitori della parabola, affinché possa dire anche a noi: Rallegrati, servo buono e fedele (Mt 25, 23).

Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra (Mt 2, 11). Fermiamoci un po' e cerchiamo di capire questo passo del Vangelo. Come è possibile che noi, che siamo nulla e nulla valiamo, possiamo fare delle offerte a Dio? Dice la scrittura: Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall'alto (Gc 1, 17). L'uomo non riesce neppure a scoprire pienamente la profondità e la bellezza dei doni del Signore: Se tu conoscessi il dono di Dio! (Gv 4, 10), dice Gesù alla samaritana. Gesù ci ha insegnato ad attendere tutto dal Padre, a cercare prima di ogni cosa il regno di Dio e la sua giustizia, perché tutto il resto ci sarà dato in sovrappiù, ed Egli sa bene di che cosa abbiamo bisogno (cfr Mt 6, 32-33).

Nell'economia della salvezza, il Padre nostro dei Cieli si prende cura di ogni anima con amorosa delicatezza: Ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro (1 Cor 7, 7). Sembrerebbe pertanto inutile preoccuparsi di presentare al Signore qualcosa di cui Egli possa aver bisogno; dalla situazione di debitori che non hanno di che pagare (cfr Mt 18, 25), i nostri doni sarebbero simili a quelli dell'Antica Legge, che Dio ormai non accetta più: Non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose tutte che vengono offerte secondo la Legge (Eb 10, 8).

Ma il Signore sa che il dare è proprio degli innamorati, ed Egli stesso ci indica che cosa desidera da noi. Non gli importano le ricchezze, i frutti o gli animali della terra, del mare o dell'aria, perché tutto è suo; vuole qualcosa di intimo che gli dobbiamo offrire con libertà: Figlio mio, dammi il tuo cuore (Pro 23, 26). Vedete? Non si accontenta di spartire: vuole tutto. Torno a ripetere che non cerca le nostre cose, cerca noi stessi. Solo da qui, da questo primo dono, acquistano senso tutti gli altri doni che possiamo offrire al Signore.

Diamogli pertanto dell'oro: l'oro puro dello spirito di distacco dal denaro e dai mezzi materiali, cose che pure sono buone, perché vengono da Dio. Ma il Signore ha disposto che le utilizzassimo senza lasciarvi il cuore, mettendole a frutto per il bene comune di tutti gli uomini.

I beni della terra non sono cattivi; si pervertono quando l'uomo li trasforma in idoli, davanti ai quali si prostra; si nobilitano, invece, quando li usiamo come strumenti di bene, in un compito cristiano di giustizia e di carità. Non possiamo correre dietro ai beni materiali, come se in essi fosse il nostro tesoro. Il nostro tesoro è qui, adagiato in una mangiatoia; è Cristo, e in Lui devono orientarsi tutti i nostri affetti, perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore (Mt 6, 21).

Offriamogli poi l'incenso: è l'anelito, che sale fino al Signore, di condurre una vita nobile che diffonda intorno a sé il bonus odor Christi (2 Cor 2, 15), il profumo di Cristo. Quando le parole e le azioni sono impregnate del bonus odor, si semina comprensione, amicizia. La nostra vita deve accompagnare quella degli altri perché nessuno sia o si senta solo. La nostra carità deve essere anche affetto, calore umano.

Ce lo insegna Gesù. L'umanità attendeva da secoli la venuta del Salvatore; i profeti l'avevano annunciato in mille modi; e fin nei più remoti angoli della terra — benché si fosse perduta, per il peccato e l'ignoranza, gran parte della rivelazione di Dio agli uomini — si conservava il desiderio di Dio, l'ansia di essere redenti.

Giunge la pienezza dei tempi e per compiere questa missione non viene a noi un genio filosofico come Platone o Socrate, non si stabilisce sulla terra un potente conquistatore come Alessandro Magno. Nasce un bambino a Betlemme. È il Redentore del mondo; e ancor prima di parlare ama con le opere. Non porta nessuna formula magica, perché sa che la salvezza che offre deve passare attraverso il cuore dell'uomo. E affinché ci innamorassimo di Lui e sapessimo accoglierlo nelle nostre braccia, le sue prime azioni sono il sorriso e il pianto di un bambino, il sonno inerme di un Dio incarnato.

Ci rendiamo conto una volta di più che il cristianesimo è fatto così. Se il cristiano non ama con le opere, è fallito come cristiano; ed è come dire che è fallito anche come uomo. Non puoi pensare agli altri come fossero dei numeri o degli scalini per arrampicarsi; oppure come fossero massa da esaltare o da umiliare, da adulare o disprezzare, a seconda dei casi. Prima di ogni altra cosa, devi pensare agli altri, a coloro che ti sono vicini, stimandoli per quello che sono: figli di Dio, con tutta la dignità di questo titolo meraviglioso.

Con i figli di Dio dobbiamo comportarci come figli di Dio: il nostro amore deve essere abnegato, quotidiano, ricco di mille sfumature di comprensione, di sacrificio silenzioso, di donazione nascosta. È questo il bonus odor Christi che faceva dire a quelli che vivevano tra i primi fratelli nella fede: Guardate come si amano! (TERTULLIANO, Apologeticum, 39 [PL 1, 471]).

Non si tratta di un ideale remoto. Il cristiano non è un Tartarino di Tarascona che pretende di cacciare leoni là dove non può trovarli: nel corridoio di casa sua. Desidero parlare sempre della vita quotidiana e concreta: quella della santificazione del lavoro, dei rapporti famigliari, dell'amicizia. Se non siamo cristiani in queste occasioni, dove mai lo saremo? Il buon odore dell'incenso promana da un carbone acceso che brucia, umilmente, una manciata di granelli; il bonus odor Christi si avverte, in mezzo agli uomini, non per la fiammata di un fuoco fatuo, ma per l'efficacia delle braci accese delle virtù: la giustizia, la lealtà, la fedeltà, la comprensione, la generosità, la gioia…

Assieme ai Magi, offriamo infine la mirra, ossia il sacrificio, che non deve mai mancare nella vita cristiana. La mirra ci porta alla memoria la Passione del Signore: sulla croce gli diedero da bere mirra mista a vino (cfr Mc 15, 23), e con la mirra unsero il suo corpo per la sepoltura (cfr Gv 19, 39). Ma non crediate che riflettere sulla necessità del sacrificio e della mortificazione sia come aggiungere una nota di tristezza alla gioia della festa che oggi celebriamo.

Mortificazione non è pessimismo, non è grettezza d'animo. La mortificazione non vale niente senza la carità. Dobbiamo pertanto cercare sacrifici che, pur rendendoci capaci di padroneggiare le cose della terra, non mortifichino coloro che convivono con noi. Il cristiano non può essere né carnefice né meschino; è un uomo che sa amare con le opere, che saggia il suo amore con la pietra di paragone del dolore.

Devo dire peraltro, ancora una volta, che tale mortificazione non consisterà ordinariamente in grandi rinunce, che non saranno neppure frequenti; sarà composta di piccole vittorie: sorridere a chi ci importuna, negare al corpo capricciosi desideri superflui, abituarsi ad ascoltare gli altri, far fruttare il tempo che Dio ci mette a disposizione… E tante altre piccole cose apparentemente senza senso — contrarietà, difficoltà, amarezze — che si presentano senza essere cercate nel corso di ogni giornata.

Concludo ripetendo alcune parole del Vangelo odierno: Entrati nella casa, videro il Bambino, con Maria, sua madre. La Madonna non si separa da suo figlio. I Magi non sono ricevuti da un re assiso sul trono, ma da un bambino nelle braccia di sua madre. Chiediamo alla Madre di Dio e Madre nostra di guidarci al cammino che porta all'amore pieno: Cor Mariae dulcissimum, iter para tutum! Il suo dolce cuore conosce la via più sicura per trovare Cristo.

I Magi ebbero una stella; noi abbiamo Maria, stella maris, stella Orientis. E oggi le diciamo: Maria Santissima, stella del mare, stella del mattino, aiuta i tuoi figli. Il nostro zelo per le anime non deve conoscere frontiere, poiché nessuno è escluso dall'amore di Cristo. I Magi furono le primizie dei gentili; ma consumata la Redenzione, non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna — non c'è discriminazione alcuna — poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù (Gal 3, 28).

Noi cristiani non possiamo essere esclusivisti, non possiamo discriminare o classificare le anime. Molti verranno dall'Oriente e dall'Occidente (Mt 8, 11); tutti hanno spazio nel cuore di Cristo. Le sue braccia — guardiamolo di nuovo nel presepe — sono quelle di un bambino: ma sono le stesse che aprirà sulla croce per attirare a sé tutti gli uomini (cfr Gv 12, 32).

Un ultimo pensiero per quell'uomo giusto, san Giuseppe, nostro padre e signore, che, nella scena dell'Epifania, come pure altrove, passa inosservato. Io lo immagino raccolto in contemplazione, mentre protegge con amore il Figlio di Dio che, fatto uomo, è stato affidato alle sue cure paterne. Con la meravigliosa delicatezza di chi non vive per sé, il santo Patriarca si prodiga in un servizio silenzioso ed efficace.

Abbiamo parlato oggi di vita d'orazione e di zelo apostolico. Quale maestro migliore di san Giuseppe? Se volete un consiglio, vi dirò quello che ripeto instancabilmente da molti anni: Ite ad Ioseph (Gn 41, 55), ricorrete a san Giuseppe; egli vi mostrerà vie pratiche e modi ad un tempo umani e divini di avvicinarvi a Gesù. E ben presto oserete fare come lui: Portare in braccio, baciare, vestire, custodire il Dio Bambino che ci è nato (dall'orazione a san Giuseppe, preparatoria alla Santa Messa: O felicem virum, beatum Ioseph, cui datum est Deum, quem multi reges voluerunt videre et non viderunt, audire et non audierunt; non solum videre et audire, sed portare, deosculari, vestire et custodire!). Assieme all'omaggio della loro venerazione, i Magi offrirono a Gesù oro, incenso e mirra; Giuseppe gli diede intero il suo cuore giovane e innamorato.

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