Perché tutti siano salvati

La vocazione cristiana, la chiamata personale del Signore, ci porta a identificarci con Lui. Ma non bisogna dimenticare che Egli è venuto sulla terra per redimere tutti, perché vuole che tutti gli uomini siano salvati (1 Tm 2, 4). Non c'è anima che non gli interessi. Ciascuna di esse è costata il prezzo del suo Sangue (cfr 1 Pt 1, 18-19).

Nel considerare queste verità, mi torna alla mente la conversazione tra gli Apostoli e il Maestro poco prima del miracolo della moltiplicazione dei pani. Una grande moltitudine aveva accompagnato Gesù. Il Signore solleva gli occhi e domanda a Filippo: «Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (Gv 6, 5). Dopo un rapido calcolo Filippo risponde: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo» (Gv 6, 7). Non hanno tanto denaro, devono ricorrere a una soluzione famigliare. Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma cos'è questo per tanta gente?» (Gv 6, 8-9).

Noi vogliamo seguire il Signore e desideriamo diffondere la sua Parola. Umanamente parlando, è logico che ci chiediamo anche noi: che cosa siamo per tanta gente? A confronto col numero degli abitanti della terra, pur contandoci a milioni, siamo pochi. Perciò dobbiamo considerarci come un po' di lievito preparato e disposto per portare il bene all'umanità intera, ricordando le parole dell'Apostolo: Un po' di lievito fa fermentare tutta la pasta (1 Cor 5, 6), la trasforma. Abbiamo bisogno di imparare a essere noi il fermento, il lievito che modifica e trasforma la moltitudine.

Forse il fermento è per natura migliore della massa? No, ma il lievito è il mezzo perché la massa venga elaborata, per diventare un alimento gradevole e sano.

Pensate, per un momento, all'azione efficace del lievito che serve per confezionare il pane, nutrimento semplice, fondamentale, alla portata di tutti. In tanti luoghi — forse vi avete assistito — la preparazione dell'infornata è una vera cerimonia, da cui si ottiene un prodotto stupendo, saporito, che si gusta con gli occhi.

Si prende farina buona, della miglior qualità, se è possibile. Si lavora la massa nella madia e la si mescola col lievito con un lungo e paziente lavoro. Poi la si lascia in riposo il tempo necessario perché il lievito compia la sua funzione e rigonfi la pasta.

Nel frattempo arde il fuoco del forno, alimentato dalla legna che si consuma. E la massa, posta al calore della brace, dà il pane tiepido, soffice, di alta qualità. Un risultato impossibile da ottenere senza l'intervento del lievito — una piccola quantità —, che si è sciolto, scomparendo tra gli altri elementi, per compiere un lavoro efficiente, che passa inavvertito.

Se meditiamo con criterio spirituale quel testo di san Paolo, comprenderemo di non avere altra scelta che di lavorare al servizio di tutte le anime. Fare diversamente sarebbe egoismo. Se consideriamo con umiltà la nostra vita, vedremo chiaramente che il Signore, oltre alla grazia della fede, ci ha concesso dei talenti, delle qualità. Nessuno di noi è un esemplare ripetuto in serie: Dio nostro Padre ci ha creati a uno a uno, distribuendo tra i suoi figli un diverso numero di beni. Dobbiamo mettere quei talenti, quelle qualità, al servizio di tutti, utilizzando i doni di Dio come strumenti per aiutare gli altri a scoprire Cristo.

Non immaginatevi quest'ansia come un sovrappiù, come un abbellire con una filigrana la nostra condizione di cristiani. Se il lievito non fermenta, marcisce. Può scomparire per ravvivare la massa, ma può anche scomparire perché si perde, lasciando un monumento all'inefficacia e all'egoismo. Non facciamo un favore a Dio nostro Signore nel farlo conoscere agli altri: Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è per me un dovere — a motivo del mandato di Gesù —: guai a me se non predicassi il Vangelo! (1 Cor 9, 16).

Ecco, io invierò numerosi pescatori — dice il Signore — che li pescheranno (Ger 16, 16). Così ci viene indicato il grande lavoro: pescare. Del mondo si parla o si scrive talora paragonandolo al mare. C'è verità in questo paragone. Nella vita umana, come nel mare, ci sono periodi di calma e di burrasca, di tranquillità e di venti forti.

Frequentemente le creature si trovano a nuotare in acque amare, in mezzo a grandi ondate; camminano tra le tormente, in una corsa triste, anche quando sembra che non manchi loro l'allegria, ma un'allegria molto rumorosa: sono le risate con cui cercano di nascondere la sfiducia, il disgusto di una vita senza carità e senza comprensione. Gli uomini, come i pesci, si divorano l'un l'altro.

È compito dei figli di Dio far sì che tutti gli uomini entrino — liberamente — nella rete divina, e così giungano ad amarsi. Se siamo cristiani, dobbiamo trasformarci in pescatori, come quelli descritti dal profeta Geremia, con la metafora che anche Gesù ha impiegato spesso: «Seguitemi — dice a Pietro e ad Andrea —, vi farò pescatori di uomini» (Mt 4, 19).

Dobbiamo accompagnare Cristo nella sua pesca divina. Gesù si trova presso il lago di Genezaret e la gente si accalca intorno a Lui per ascoltare la parola di Dio (Lc 5, 2). Anche oggi! Non lo vedete? Desiderano ascoltare il messaggio di Dio, anche se all'esterno lo nascondono. Alcuni forse hanno dimenticato la dottrina di Cristo; altri — senza loro colpa — non l'hanno mai appresa e pensano alla religione come a qualcosa di strano. Convincetevi, però, di una realtà sempre attuale: presto o tardi arriva un momento in cui l'anima non ne può più, non le bastano più le spiegazioni abituali, non la soddisfano più le menzogne dei falsi profeti. Allora, anche se non lo ammettono, quelle persone sentono il bisogno di saziare la loro inquietudine con l'insegnamento del Signore.

Ascoltiamo il racconto di san Luca: Vide due barche ormeggiate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca (Lc 5, 2-3). Quando terminò la sua catechesi, disse a Simone: «Prendi il largo e calate le reti per la pesca» (Lc 5, 4). È Cristo il padrone della barca; è Lui che prepara il lavoro; è venuto al mondo perché i suoi fratelli trovino il cammino della gloria e dell'amore per il Padre. L'apostolato cristiano non l'abbiamo inventato noi. Noi uomini, caso mai, lo ostacoliamo con la nostra grettezza, con la nostra mancanza di fede.

Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla» (Lc 5, 5). La risposta appare ragionevole. Di solito si pesca nelle ore notturne; e proprio in quell'occasione la notte era stata infruttuosa. Perché pescare di giorno? Ma Pietro ha fede: «Sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5, 5). Decide di agire come Cristo gli ha suggerito; si impegna a lavorare fidando nella parola del Signore. E che succede? Avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell'altra barca che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche al punto che quasi affondavano (Lc 5, 6-7).

Quando Gesù si mise in mare coi discepoli, non aveva di mira solo questa pesca. Perciò, quando Pietro si inginocchia ai suoi piedi e confessa con umiltà: «Allontanati da me che sono un peccatore», il Signore risponde: «Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5, 10). E anche in questa nuova pesca non mancherà tutta l'efficacia divina: gli Apostoli saranno strumenti di grandi prodigi, nonostante le loro personali miserie.

Oso assicurare che, se lottiamo ogni giorno per raggiungere la santità, ciascuno nel suo stato in mezzo al mondo e nell'esercizio della sua professione, il Signore farà anche di noi, nella nostra vita ordinaria, strumenti capaci di operare miracoli, e dei più straordinari, se fosse necessario. Daremo la vista ai ciechi. Chi non potrebbe raccontare tanti casi di ciechi fin quasi dalla nascita, che hanno recuperato la vista, ricevendo tutto lo splendore della luce di Cristo? Altri erano sordi, altri muti, e non potevano ascoltare o articolare una parola come figli di Dio… I loro sensi sono stati purificati, e ascoltano e si esprimono ormai come uomini, non come bestie. In nomine Iesu (At 3, 6), nel nome di Gesù i suoi apostoli danno la facoltà di muoversi agli storpi, incapaci di qualsiasi azione utile; così pure ai poltroni, che conoscono i loro obblighi, ma non li osservano. Nel nome del Signore, sorge et ambula! (At 3, 6), alzati e cammina.

Anche chi era morto, in disfacimento, e già esalava lezzo di cadavere, ha sentito la voce di Dio, come nel miracolo della vedova di Nain: «Giovinetto, dico a te, alzati!» (Lc 7, 14). Faremo miracoli, come sono stati operati in te stesso, in me: forse eravamo ciechi, o sordi, o storpi, o esalavamo il fetore della morte, e la parola del Signore ci ha sollevati dalla nostra prostrazione. Se amiamo Cristo, se lo seguiamo sinceramente, se non cerchiamo noi stessi, ma solo Lui, in suo nome potremo trasmettere ad altri, gratuitamente, quello che gratuitamente Lui ci ha concesso.

Ho predicato costantemente questa possibilità soprannaturale e umana che Dio nostro Padre pone in mano ai suoi figli: prendere parte alla Redenzione operata da Cristo. Mi riempio di gioia grande quando trovo questa dottrina nei testi dei Padri della Chiesa. San Gregorio Magno afferma: I cristiani liberano dai serpenti quando strappano il male dal cuore degli uomini con la loro esortazione al bene… C'è imposizione delle mani sugli infermi per curarli quando, vedendo che il prossimo si indebolisce nella pratica del bene, gli si offre aiuto in mille modi, irrobustendolo in virtù dell'esempio. Tali miracoli sono tanto più grandi in quanto avvengono in campo spirituale, portando vita non ai corpi, ma alle anime. Anche voi, se non vi stancate, opererete simili prodigi, con l'aiuto di Dio (SAN GREGORIO MAGNO, Homiliae in Evangelia, 29, 4 [PL 76, 1215-1216]).

Dio vuole che tutti siano salvi: è questo un invito e una responsabilità che gravano su ciascuno di noi. La Chiesa non è un rifugio per privilegiati. Forse la grande Chiesa è una piccola parte della terra? La grande Chiesa è il mondo intero (SANT' AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos, 21, 2, 26 [PL 36, 177]). Così scriveva sant'Agostino e aggiungeva: Dovunque tu ti diriga, là è Cristo. Tua eredità sono i confini della terra; vieni, possiedila tutta assieme a me (SANT'AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos, 21, 2, 30 [PL 36, 180]). Vi ricordate come erano le reti? Stracariche, fino a traboccare: non c'era posto per altri pesci. Dio attende ardentemente che la sua casa si riempia (cfr Lc 14, 23); Egli è Padre, e gli piace avere tutti i suoi figli attorno a sé.

Veniamo ora all'altra pesca, quella che avvenne dopo la Passione e Morte di Gesù. Pietro ha rinnegato tre volte il Maestro e ha pianto con umile dolore; il canto del gallo gli ha ricordato gli avvertimenti del Signore ed egli ha chiesto perdono dal profondo del cuore. Mentre attende, contrito, la promessa della Risurrezione, esercita il suo mestiere e va a pescare. A proposito di questa pesca, ci vien chiesto con frequenza perché Pietro e i figli di Zebedeo tornarono all'occupazione che avevano prima della chiamata del Signore. Erano pescatori, infatti, quando Gesù disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini». A chi si sorprende di quel comportamento, bisogna rispondere che agli Apostoli non era stato proibito l'esercizio della loro professione trattandosi di cosa legittima e onesta (SANT'AGOSTINO, In Ioannis Evangelium tractatus, 122, 2[PL 35, 1959]).

L'apostolato, ansia che consuma interiormente il cristiano della strada, non è qualcosa di diverso dal compito di ogni giorno: si confonde col lavoro quotidiano, quando esso è trasformato in occasione di incontro personale con Cristo. In questo lavoro, impegnandoci gomito a gomito negli stessi problemi dei nostri compagni, dei nostri amici, dei nostri parenti, potremo aiutarli a raggiungere Cristo, che ci attende presso la riva del lago. Come Pietro prima di essere apostolo, pescatore; dopo essere stato eletto apostolo, pescatore. Prima e dopo la stessa professione.

Che cosa cambia allora? Cambia l'orizzonte dell'anima — perché in essa è entrato Cristo, così come è salito sulla barca di Pietro —; il panorama diviene vasto e il cuore si riempie di ambizione di servire e di incoercibile desiderio di annunciare a tutte le creature i magnalia Dei (At 2, 11), le cose meravigliose che il Signore opera, quando non glielo impediamo. E non voglio lasciar cadere l'occasione per ricordare che il lavoro — per così dire — professionale dei sacerdoti è un ministero divino e pubblico, che permea prepotentemente tutta la loro attività al punto che, in generale, se un sacerdote ha del tempo per dedicarsi a un altro lavoro che non sia propriamente sacerdotale, può essere sicuro che non compie i doveri del suo ministero.

Si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli altri dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla. Quando già era l'alba Gesù si presentò sulla riva (Gv 21, 2-4).

Passa accanto agli apostoli, accanto ad anime che si sono date a Lui: ed essi non se ne rendono conto. Quante volte c'è Cristo, e non accanto a noi, ma in noi; eppure viviamo una vita tanto umana! Cristo è vicino, ma i suoi figli non gli rivolgono uno sguardo d'affetto, né una parola d'amore, né gli dedicano un'opera di zelo.

I discepoli — scrive san Giovanni — non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?» (Gv 21, 4-5). Questa scena famigliare mi riempie di gioia. Gesù Cristo — Dio — che parla in questo modo! Lui che ha già un corpo glorioso! «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non potevano più tirarla su per la gran quantità di pesci (Gv 21, 6). Ora comprendono. Tornano alla mente di quei discepoli le parole che hanno ascoltato tanto spesso dalle labbra del Maestro: pescatori di uomini, apostoli. E comprendono che tutto è possibile, perché è Lui che dirige la pesca.

Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!» (Gv 21, 7). È l'amore, l'amore che vede da lontano. L'amore è il primo ad avvertire le delicatezze del Signore. L'apostolo adolescente, con la forza del suo schietto affetto per Gesù — perché amava Cristo con tutta la purezza e tutta la tenerezza di un cuore intatto —, esclama: «È ilSignore!».

Simon Pietro appena udì che era il Signore, si cinse ai fianchi la sopravveste, poiché era spogliato, e si gettò in mare (Gv 21, 7).

Pietro è la fede, e si lancia in mare con audacia meravigliosa. Con l'amore di Giovanni e la fede di Pietro, dove non potremo giungere?

Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: infatti non erano lontano da terra se non un centinaio di metri (Gv 21, 8). Subito mettono la pesca ai piedi del Signore, perché è sua. Così noi impariamo che le anime sono di Dio, che nessuno su questa terra può attribuirsene la proprietà, e che l'apostolato della Chiesa — che è annuncio e realtà di salvezza — non si fonda sul prestigio di qualcuno, ma sulla grazia divina.

Gesù interroga Pietro per tre volte, come se volesse dargli altrettante possibilità di riparare la sua triplice negazione. Pietro ha imparato; la sua stessa miseria lo ha reso esperto. Consapevole della sua debolezza, è profondamente convinto della vanità di certi sfoggi temerari. Perciò mette tutto nelle mani di Cristo: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo» (Gv 21, 17). Che cosa risponde Gesù? «Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle» (Gv 21, 17). Non le tue, non le vostre: lemie! Perché Lui ha creato l'uomo, Lui lo ha redento, Lui ha riscattato ogni anima, a una a una — ripeto —, al prezzo del suo Sangue.

I donatisti, nel quinto secolo, per attaccare i cattolici, sostenevano che era impossibile che il vescovo di Ippona, Agostino, professasse la verità, perché era stato un grande peccatore. E sant'Agostino suggeriva ai suoi fratelli nella fede come dovevano rispondere: Agostino è vescovo nella Chiesa Cattolica; egli esercita il suo incarico, del quale deve rendere conto a Dio. Lo conobbi tra i buoni. Se è cattivo, lui lo sa; se è buono, non in lui ho riposto però la mia speranza. Perché la prima cosa che ho appreso nella Chiesa Cattolica è di non porre la mia speranza in un uomo (SANT'AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos, 36, 3, 20 [PL 36, 395]).

Non facciamo il nostro apostolato. Se fosse nostro, che cosa potremmo dire? Facciamo l'apostolato di Cristo; come Dio lo vuole e come ce l'ha comandato: Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo (Mc 16, 15). Gli errori sono nostri; i frutti del Signore.

Come compiremo tale apostolato? Innanzitutto con l'esempio, vivendo in armonia con la Volontà del Padre, come Gesù ce l'ha rivelata, con la sua vita, coi suoi insegnamenti. È vera fede quella che non tollera che le azioni siano in contrasto con ciò che si afferma a parole. Esaminando la nostra condotta personale, potremo misurare l'autenticità della nostra fede. Non siamo sinceramente credenti se non ci sforziamo di tradurre in realtà ciò che confessiamo con le labbra.

Viene a proposito riportare alla nostra memoria un episodio che manifesta lo stupendo vigore apostolico dei primi cristiani. Non era passato un quarto di secolo da quando Gesù era salito in Cielo, che già in molte città e villaggi si era propagata la sua fama. A Efeso giunge un uomo chiamato Apollo, uomo colto, versato nelle Scritture. Questi era stato ammaestrato nella via del Signore e pieno di fervore parlava e insegnava esattamente ciò che si riferiva a Gesù, sebbene conoscesse soltanto il Battesimo di Giovanni (At 18, 24-25).

Nella mente di quest'uomo era già penetrata la luce di Cristo: aveva sentito parlare di Lui e lo annunciava agli altri. Però gli restava ancora del cammino da fare; doveva informarsi di più, comprendere pienamente la fede e amare davvero il Signore. Ascoltano la sua conversazione due sposi cristiani, Aquila e Priscilla, e non rimangono inattivi, inerti. Non hanno pensato: «Ne sa già abbastanza, nessuno ci chiama a dargli delle lezioni». Poiché erano animati da autentico zelo apostolico, si avvicinarono ad Apollo e lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio (At 18, 26).

Ammirate anche il comportamento di san Paolo. Prigioniero per aver divulgato l'insegnamento di Cristo, non trascura nessuna occasione per diffondere il Vangelo. Di fronte a Festo e ad Agrippa non esita a dichiarare: «L'aiuto di Dio mi ha assistito fino a questo giorno, e posso ancora rendere testimonianza agli umili e ai grandi. Null'altro io affermo se non quello che i profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere, che cioè il Cristo sarebbe morto, e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunziato la luce al popolo e ai pagani» (At 26, 22-23).

L'Apostolo non tace, non nasconde la sua fede, non rinuncia alla propaganda apostolica che aveva motivato l'odio dei suoi persecutori: continua ad annunciare la salvezza a tutte le genti. E, con audacia meravigliosa, affronta Agrippa: «Credi, o re Agrippa, nei profeti? So che ci credi» (At 26, 27). Quando Agrippa commenta: «Per poco non mi convinci a farmi cristiano!», Paolo risponde: «Per poco o per molto, io vorrei supplicare Dio che non soltanto tu, ma quanti oggi mi ascoltano diventassero così come sono io, eccetto queste catene!» (At 26, 28-29).

Dove attingeva Paolo questa forza? Omnia possum in eo qui me confortat! (Fil 4, 13), posso tutto, perché è di Dio questa forza, questa speranza, questa carità. A me riesce molto difficile credere nell'efficacia soprannaturale di un apostolato che non sia appoggiato, solidamente fondato, su una vita di continua intimità col Signore. Durante il lavoro, sì; nella propria casa o nel bel mezzo della strada, attenti a tutti i problemi che ogni giorno si presentano, alcuni più importanti e altri meno. Proprio lì, non altrove, ma col cuore in Dio. Allora le nostre parole e le nostre azioni — perfino le nostre miserie — emaneranno il bonus odor Christi (2 Cor 2, 15), il profumo di Cristo, che gli altri inevitabilmente percepiranno: «Ecco un cristiano!».

Se lasci che la tentazione ti faccia dire: «Chi me lo fa fare?», dovrei risponderti: «Te lo comanda — te lo chiede — Cristo stesso». La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi gli operai nella sua messe! (Mt 9, 37-38). Non concludere egoisticamente: «Non sono fatto per queste cose, c'è già chi ci pensa; mi sentirei un estraneo'». No, non c'è chi ci pensa: quello che dici, potrebbero dirlo anche tutti gli altri.

L'appello di Cristo è rivolto a tutti e singoli i cristiani. Nessuno è dispensato: né per ragioni di età, né di salute, né di attività. Non ci sono scuse. O diamo frutti di apostolato, o la nostra fede è sterile.

D'altronde, chi ha detto che per parlare di Cristo, per diffondere la sua dottrina, sia necessario fare cose speciali e strane? Vivi la tua vita ordinaria, lavora dove già sei, adempi i doveri del tuo stato, e compi fino in fondo gli obblighi corrispondenti alla tua professione o al tuo mestiere, maturando, migliorando ogni giorno. Sii leale, comprensivo con gli altri, esigente verso te stesso. Sii mortificato e allegro. Sarà questo il tuo apostolato. E senza che tu ne comprenda il perché, data la tua pochezza, le persone del tuo ambiente ti cercheranno e converseranno con te in modo naturale, semplice — all'uscita dal lavoro, in una riunione di famiglia, nell'autobus, passeggiando, o non importa dove —: parlerete delle inquietudini che si trovano nel cuore di tutti, anche se a volte alcuni non vogliono rendersene conto. Le capiranno meglio quando cominceranno a cercare Dio davvero.

Chiedi a Maria, Regina apostolorum, che ti muova ad essere partecipe dell'ansia di semina e di pesca che palpita nel Cuore di suo Figlio. Ti assicuro, se cominci, che vedrai, come i pescatori di Galilea, la barca piena, e Cristo sulla riva che ti attende. Perché la pesca è sua.

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