Le virtù umane

Narra san Luca, al capitolo settimo: Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola (Lc 7, 36). Giunge in quel momento una donna della città, conosciuta da tutti come peccatrice, e si avvicina a Gesù che, secondo l'uso di allora, pranza disteso sul fianco, e gli lava i piedi. Le lacrime sono l'acqua di quel commovente lavacro e i capelli l'asciugatoio. Col balsamo contenuto in un prezioso vasetto d'alabastro unge i piedi del Maestro. E li bacia.

Il fariseo pensa male. Non riesce a concepire tanta misericordia nel cuore di Gesù. Se costui fosse un profeta saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice (Lc 7, 39). Gesù legge il suo pensiero e gli dice: Vedi questa donna? Io sono entrato nella tua casa e tu non m'hai dato l'acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e me li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato (Lc 7, 44-47).

Non ci soffermeremo ora a considerare le meraviglie divine del cuore misericordioso del Signore. Esamineremo un altro aspetto della scena: come Gesù apprezza i dettagli di cortesia e di delicatezza umana che il fariseo non ha saputo manifestargli. Cristo è perfectus Deus, perfectus homo (Simbolo Quicumque): Egli è Dio, Seconda Persona della Trinità Beatissima, e perfetto uomo. Porta con sé la salvezza e non la distruzione della natura; impariamo quindi da Lui che non è da cristiani comportarsi male con l'uomo, creatura di Dio, fatto a sua immagine e somiglianza (cfr Gn 1, 26).

Una certa mentalità laicista e altri modi di pensare che potremmo chiamare 'pietisti' coincidono nel non considerare il cristiano come un uomo completo. Per i primi, le esigenze del Vangelo soffocherebbero le qualità umane; per gli altri, la natura decaduta metterebbe in pericolo la purezza della fede. Il risultato è lo stesso: si smarrisce il senso profondo dell'incarnazione di Cristo, si ignora che il Verbo si fece carne, uomo, e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1, 14).

La mia esperienza di uomo, di cristiano e di sacerdote mi insegna tutto il contrario: non esiste cuore, per quanto avviluppato dal peccato, che non nasconda, come brace tra la cenere, un barlume di nobiltà. Tutte le volte che ho bussato a un cuore, a tu per tu, e con la parola di Cristo, ho avuto sempre risposta.

Sulla terra sono molti coloro che non hanno rapporto con Dio; forse sono creature che non hanno avuto l'occasione di ascoltare la parola divina o che l'hanno dimenticata. Ma sovente le loro disposizioni sono umanamente sincere, leali, compassionevoli, oneste. Oso affermare che chi riunisce in sé tali condizioni, non è lontano dall'essere generoso con Dio, perché le virtù umane sono il fondamento delle virtù soprannaturali.

È vero che non bastano le condizioni personali: nessuno si salva senza la grazia di Cristo. Ma quando un uomo conserva e coltiva un principio di rettitudine, Dio gli appianerà il cammino; potrà diventare santo, perché sa vivere da galantuomo.

Forse avrete presenti altri esempi in certo senso opposti: tanti che si dicono cristiani — perché sono battezzati e ricevono i sacramenti — ma si rivelano sleali, falsi, ipocriti, superbi… E cadono a capofitto. Sembrano stelle che brillano un momento nel cielo, ma precipitano senza rimedio. Se accettiamo la responsabilità di essere suoi figli, vedremo che Dio ci vuole molto umani. La testa deve arrivare al cielo, ma i piedi devono poggiare saldamente per terra. Il prezzo per vivere da cristiani non è la rinuncia a essere uomini o la rinuncia allo sforzo per acquistare quelle virtù che alcuni posseggono anche senza conoscere Cristo. Il prezzo di ogni cristiano è il Sangue redentore di Gesù nostro Signore che ci vuole — ripeto — molto umani e molto divini, costanti nell'impegno quotidiano di imitare Lui, perfectus Deus, perfectus homo.

Non saprei dire qual è la principale virtù umana: dipende dal punto di vista. La questione, per di più, è oziosa, perché non si tratta di vivere una o alcune virtù: è necessario lottare per acquisirle e praticarle tutte. Ciascuna si intreccia con le altre: lo sforzo per essere sinceri — ad esempio — ci rende giusti, lieti, prudenti, sereni.

Non mi convince la distinzione tra virtù personali e virtù sociali. Non esiste virtù alcuna che possa favorire l'egoismo; tutte e singole promuovono il bene della nostra anima e quello di coloro che ci stanno vicini. Essendo tutti uomini, e figli di Dio, non possiamo concepire la nostra vita come l'affannosa realizzazione di un brillante curriculum, di una luminosa carriera. Tutti dobbiamo sentirci solidali e, nell'ordine della grazia, siamo uniti dai vincoli soprannaturali della Comunione dei santi.

Inoltre dobbiamo considerare che la capacità di decisione e di responsabilità si fonda sulla libertà personale del singolo e perciò le virtù sono fondamentalmente personali, della persona. Senza dubbio in questa battaglia d'amore nessuno combatte da solo — sono solito dire che nessuno è un verso isolato —: in qualche modo ci aiutiamo o ci danneggiamo. Siamo anelli della stessa catena. Chiedi ora, assieme a me, a Dio nostro Signore, che quella catena ci unisca al suo Cuore, finché arrivi il giorno in cui lo contempleremo faccia a faccia nel cielo, per sempre.

Prendiamo ora in considerazione alcune di queste virtù umane. Mentre parlo, voi dovete cercare, personalmente, di mantenere il dialogo col Signore: chiedetegli aiuto per noi tutti, chiedetegli slancio per approfondire il mistero della sua Incarnazione, per essere anche noi, nella nostra carne, in mezzo agli uomini, viva testimonianza di Colui che è venuto per salvarci.

Il cammino del cristiano, il cammino di ogni uomo, non è facile. A volte, per un certo tempo, sembra che tutto avvenga secondo le nostre attese; ma sono brevi momenti. Vivere significa affrontare le difficoltà, sentire nel cuore gioie e afflizioni, lasciarsi modellare dalle vicissitudini e così poter acquistare fortezza, pazienza, magnanimità, serenità.

È forte chi persevera fino al compimento di ciò che giudica di dover fare, secondo coscienza; chi non stima il valore di un compito solo per i benefici che ne ottiene, ma per il servizio che presta agli altri. Chi è forte soffre, talvolta, ma resiste; piange, forse, ma inghiottisce le lacrime. Quando infieriscono le difficoltà non si piega. Ricordate l'esempio, narrato dal libro dei Maccabei, del vecchio Eleazaro, che preferisce morire piuttosto che infrangere la legge di Dio: Perciò, abbandonando ora da forte questa vita, mi mostrerò degno della mia età e lascerò ai giovani nobile esempio, perché sappiano affrontare la morte prontamente e generosamente per le sante e venerande leggi (2 Mac 6, 27-28).

Sa essere forte chi non ha fretta di ottenere i frutti della virtù, ma è paziente. La fortezza ci fa assaporare la virtù divina e umana della pazienza. Con la vostra pazienza salverete le vostre anime (Lc 21, 19). Il possesso dell'anima è posto nella pazienza che, in effetti, è la radice e la custodia di tutte le virtù. Noi possediamo l'anima per mezzo della pazienza perché, imparando a dominare noi stessi, cominciamo a possedere quello che siamo (SAN GREGORIO MAGNO, Homiliae in Evangelia, 35, 4 [PL 76,1261]). È la pazienza che ci spinge a essere comprensivi con gli altri, persuasi che le anime, come il vino buono, migliorano col tempo.

Forti e pazienti: sereni. Ma non la serenità di chi paga la propria tranquillità col disinteresse per i propri fratelli o per il grande compito, che riguarda tutti, di diffondere senza posa il bene nel mondo intero. Sereni, perché c'è sempre perdono, perché a tutto c'è rimedio, tranne che alla morte; ma, per i figli di Dio, la morte è Vita. Sereni, non fosse che per poter agire con intelligenza: chi conserva la calma è in grado di pensare, di studiare i pro e i contro, di esaminare giudiziosamente l'esito delle azioni previste. Poi, ponderatamente, potrà agire con decisione.

Stiamo rapidamente enumerando alcune virtù umane. So che, nella vostra orazione al Signore, molte altre ne affioreranno. Io desidero fermarmi qualche istante su una dote meravigliosa, la magnanimità.

Magnanimità: animo grande, capiente, che fa posto a molti. È la forza che ci fa uscire da noi stessi, permettendoci di intraprendere opere grandi, a beneficio di tutti. Nel magnanimo non c'è posto per la meschinità; non viene a patti con l'avarizia, non fa calcoli egoistici né si serve di raggiri. Il magnanimo impiega senza riserve le sue forze in ciò che vale la pena; è quindi capace di offrire se stesso.

Non si accontenta di dare: semplicemente si dà. Così può arrivare a capire qual è la più grande dimostrazione di magnanimità: darsi a Dio.

Due virtù umane — laboriosità e diligenza — si confondono in una sola: l'impegno di mettere a frutto i talenti che ciascuno ha ricevuto da Dio. Sono virtù perché inducono a portare a termine bene le cose. Fin dal 1928 vado predicando che il lavoro non è una maledizione, non è un castigo del peccato. Nel libro della Genesi si parla di codesta realtà già prima della ribellione di Adamo contro Dio (cfr Gn 2, 15).

Secondo il piano divino, l'uomo avrebbe dovuto lavorare comunque, per cooperare al compito immenso della creazione.

La persona laboriosa utilizza con profitto il tempo, che non è solo denaro, è gloria di Dio. Fa quello che deve e si impegna in quello che fa, non per abitudine o per riempire le ore, ma come frutto di riflessione attenta e ponderata. Pertanto è diligente. Nell'uso attuale, la parola diligente ci ricorda la sua origine latina. Essa deriva dal verbo diligere, che significa amare, apprezzare, scegliere come risultato di un'attenzione delicata, accurata. Non è diligente la persona precipitosa, bensì chi lavora con amore, con premura.

Gesù, perfetto uomo, scelse un lavoro manuale che eseguì in modo delicato e attento per quasi tutto il tempo della sua permanenza sulla terra. Esercitò il suo mestiere di artigiano tra gli abitanti del suo paese, dimostrandoci chiaramente, con quell'attività umana e divina, che il lavoro ordinario non è un particolare di scarsa importanza, bensì il cardine della nostra santificazione, l'occasione continua del nostro incontro con Dio, per lodarlo e glorificarlo con l'opera della nostra intelligenza e delle nostre mani.

Le virtù umane esigono da noi uno sforzo costante, perché non è facile conservare a lungo un atteggiamento pienamente onesto di fronte alle situazioni che sembrano compromettere la sicurezza personale. Osservate, a questo proposito, il caso istruttivo della veracità: è davvero caduta in desuetudine? Ha trionfato in modo definitivo l'atteggiamento di compromesso, di sfumare i contorni, di "indorare la pillola"? Si teme la verità e perciò si ricorre a un meschino espediente: si afferma che nessuno vive o dice la verità, che tutti ricorrono alla simulazione e alla bugia.

Fortunatamente non è così. Ci sono molte persone, cristiani e non cristiani, che sacrificano la loro fama e il loro onore per la verità, che non si agitano di continuo alla ricerca dell'assetto più vantaggioso. Sono coloro che, per amore della sincerità, sanno rettificare quando scoprono di essersi sbagliati. Non sa correggersi, invece, chi mentisce già in partenza, chi ha ridotto la verità a mero suono per coprire i propri cedimenti.

Se siamo veritieri, saremo anche giusti. Non mi stancherei mai di parlare della giustizia, ma qui possiamo solo considerarne alcuni tratti, senza perdere di vista il fine di queste riflessioni, che è quello di edificare una vita interiore concreta e autentica sul solido fondamento delle virtù umane. Giustizia significa dare a ciascuno il suo; ma penso che questo non basti. Per quanto uno possa meritare, bisogna dargli di più, perché ogni anima è un capolavoro di Dio.

La carità migliore consiste nell'esercitare una giustizia generosamente eccedente: carità che di solito passa inosservata, ma che è feconda nel cielo e sulla terra. È un errore pensare che le espressioni 'termine medio' o 'giusto mezzo', riferite alle virtù morali, significhino mediocrità, come se indicassero la metà di quanto è possibile realizzare. Il medio tra l'eccesso e il difetto è un vertice, un punto limite: quanto di meglio ci indica la prudenza. D'altra parte, nel campo delle virtù teologali non si ammettono equilibri: non si può credere, sperare o amare troppo. E questo amore senza limiti per Dio trabocca su coloro che ci stanno accanto come abbondanza di generosità, di comprensione, di carità.

La temperanza è padronanza di sé. Non tutto ciò che sperimentiamo nel corpo e nell'anima va lasciato senza freno. Non tutto ciò che si può fare si deve fare. È molto agevole lasciarsi trasportare dagli impulsi che vengono chiamati naturali; ma al termine della loro corsa non si trova altro che la tristezza, l'isolamento nella propria miseria.

Alcuni non vogliono negare nulla allo stomaco, o agli occhi, o alle mani; non ascoltano il consiglio di vivere una vita pulita. Usano la facoltà di generare — una realtà nobile, partecipazione al potere creatore di Dio — in modo disordinato, come uno strumento al servizio dell'egoismo.

Non mi è mai piaciuto parlare di impurità. Preferisco esaminare i frutti della temperanza e considerare l'uomo come un vero uomo, non legato alle cose che luccicano, ma che non hanno valore, come le cianfrusaglie raccolte dalle gazze. Un vero uomo sa prescindere da ciò che produce danno alla sua anima e capisce che il sacrificio è solo apparente: vivendo in questo modo — accettando il sacrificio —, si libera di molte servitù e può assaporare per intero l'amore di Dio nell'intimo del cuore.

La vita riacquista così le tinte che l'intemperanza sfuma; si è capaci di prendersi cura degli altri, di ammetterli a partecipare di ciò che è nostro, di dedicarsi a cose grandi. La temperanza rende l'anima sobria, moderata, comprensiva; le dà un naturale riserbo, pieno di attrattiva, perché nella condotta si nota il dominio dell'intelligenza. La temperanza non è limitazione, ma grandezza. C'è molta più limitazione nell'intemperanza, dove il cuore abdica a se stesso, per porsi al servizio del primo che offre il misero richiamo di un sonaglio di latta.

Qui sapiens est corde appellabitur prudens (Pro, 16, 21), il saggio di cuore sarà proclamato prudente, leggiamo nel libro dei Proverbi. Non capiremmo la prudenza se la concepissimo come pusillanimità e mancanza di audacia. La prudenza si manifesta come abito che inclina ad agire bene, rendendo chiaro il fine e proponendo i mezzi più adatti per raggiungerlo.

La prudenza, tuttavia, non è un valore supremo. Dobbiamo chiederci sempre: quale prudenza e per che cosa? Esiste infatti una falsa prudenza — che dovremmo chiamare piuttosto astuzia — al servizio dell'egoismo, che utilizza tutte le risorse per raggiungere fini distorti. In tal caso, la perspicacia non fa altro che aggravare la cattiva disposizione e merita il rimprovero che sant'Agostino proferiva predicando al popolo: Pretendi di piegare il cuore di Dio, che è sempre retto, per adattarlo alla perversità del tuo? (SANT'AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos, 63, 18 [PL 35, 771]).

È la falsa prudenza di chi pensa di avere forze sufficienti per giustificarsi da solo. Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi (Rm 12, 16), dice san Paolo; sta scritto infatti: distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l'intelligenza degli intelligenti (1 Cor 1, 19).

San Tommaso indica tre atti di questo abito buono dell'intelletto: chiedere consiglio, giudicare rettamente, decidere (cfr SAN TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 47, a. 8). Il primo passo della prudenza è riconoscere la propria limitatezza: avere umiltà, ammettere, in determinate questioni, che non ce la facciamo, che non possiamo afferrare — in tanti casi — tutte le circostanze che è necessario non perdere di vista nel momento del giudizio. Perciò ricorriamo a qualcuno che ci può dare consigli; non a una persona qualsiasi, bensì a chi ne abbia l'idoneità e sia animato dal nostro stesso desiderio sincero di amare Dio, di seguirlo fedelmente. Non basta chiedere un parere; dobbiamo rivolgerci a chi ce lo può dare in modo disinteressato e retto.

Poi è necessario giudicare, perché la prudenza esige ordinariamente una determinazione pronta, opportuna. Se a volte è prudente ritardare la decisione in attesa che siano raccolti tutti gli elementi di giudizio, in altre occasioni sarà grave imprudenza non metter mano, quanto prima, all'opera che vediamo di dover fare, specie se è in gioco il bene degli altri.

Tale sapienza del cuore, tale prudenza, non si trasformerà mai nella prudenza della carne, cui allude san Paolo (cfr Rm 8, 6); quella cioè di coloro che hanno intelletto, ma non se ne servono per conoscere e amare il Signore. La vera prudenza è sempre attenta ai suggerimenti divini e accoglie nell'anima, in vigilante ascolto, le parole che sono promessa e realtà di salvezza: Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, che hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e ai prudenti e le hai rivelate ai piccoli (Mt 11, 25).

Sapienza del cuore che orienta e sostiene molte altre virtù: per virtù di prudenza l'uomo è audace, senza essere avventato; non schiva, per nascoste ragioni di comodità, lo sforzo necessario per vivere pienamente secondo i disegni di Dio; la sua temperanza non è insensibilità o misantropia; la sua giustizia non è durezza; la sua pazienza non è servilismo.

È prudente non chi pensa di non sbagliare mai, ma chi sa rettificare i propri errori. È prudente perché preferisce sbagliare venti volte piuttosto che abbandonarsi a un comodo astensionismo; perché non agisce con stolta precipitazione né con assurda temerarietà, ma accetta il rischio delle sue decisioni e non rinuncia a cercare il bene per timore di sbagliare. Nella vita incontriamo compagni equilibrati, obiettivi, che dominano le passioni e non fanno pendere la bilancia dal lato del loro tornaconto. Ci fidiamo di queste persone quasi per istinto, perché si comportano bene, con rettitudine, senza alterigia e senza il chiasso degli sfoghi incontrollati.

La prudenza è una virtù cordiale, indispensabile al cristiano; tuttavia la sua meta ultima non è la concordia sociale o la tranquillità di chi cerca soltanto di evitare gli attriti. Il suo motivo fondamentale è il compimento della Volontà di Dio, che ci vuole semplici, ma non puerili; amici della verità, e non sventati o leggeri: Cor prudens possidebit scientiam (Pro 18, 15), il cuore prudente possiederà la scienza; è la scienza dell'amor di Dio, il sapere definitivo, quello che può salvarci, che porta a tutte le creature frutti di pace e di comprensione e, per ogni anima, la vita eterna.

Abbiamo parlato di virtù umane, e forse qualcuno di voi si è chiesto: ma comportarsi così, non significa isolarsi dall'ambiente normale, divenire estranei al mondo di tutti i giorni? No. Non sta scritto da nessuna parte che il cristiano deve essere un personaggio estraneo al mondo. Il Signore nostro Gesù Cristo, con le opere e con le parole, ha fatto l'elogio di un'altra virtù umana che mi è particolarmente cara: la naturalezza, la semplicità.

Ricordate come il Signore è venuto al mondo: come ogni altro uomo. Trascorre l'infanzia e la giovinezza in un villaggio di Palestina, come uno qualsiasi tra i suoi concittadini. Negli anni della sua vita pubblica, ricorre insistente l'eco della vita ordinaria trascorsa a Nazaret. Parla del lavoro e si preoccupa del riposo dei suoi discepoli (cfr Mc 6, 31); va incontro a tutti e non rifiuta la conversazione di nessuno; dice espressamente ai discepoli di non impedire ai bambini di avvicinarsi a Lui… (cfr Lc 18, 16). Ricordando, forse, i tempi della sua infanzia, fa l'esempio dei bambini che giocano sulla pubblica piazza (cfr Lc 7, 32).

Non è normale, naturale, semplice, tutto questo? Non sono cose della vita di ogni giorno? Succede invece che gli uomini si assuefanno a ciò che è facile e ordinario e, inconsciamente, cercano ciò che è vistoso, artificiale. Anche a voi, per esempio, sarà capitato, come a me, di sentire elogiare la freschezza di rose appena recise, dai petali delicati e fragranti, con questo commento: «Sembrano finte!».

Naturalezza e semplicità sono due meravigliose virtù umane, che rendono l'uomo capace di ricevere il messaggio di Cristo. Invece ciò che è ingarbugliato, complicato, contorto e ritorto su se stesso, costituisce un muro che impedisce spesso di udire la voce del Signore. Ricordate il rimprovero di Gesù ai farisei: hanno elaborato un mondo complicato che esige il pagamento delle decime della menta, dell'aneto e del cumino, e hanno abbandonato gli obblighi più essenziali della legge, la giustizia e la fede; fanno attenzione a filtrare tutto ciò che bevono, perché non passi un moscerino, ma ingoiano un cammello (cfr Mt 23, 23-24).

No. Né la vita umanamente nobile di chi — senza sua colpa — non conosce Gesù, né la vita del cristiano, devono essere singolari, strane. Le virtù umane che oggi stiamo considerando, conducono tutte alla stessa conclusione. È vero uomo chi si impegna ad essere veritiero, leale, sincero, forte, temperante, generoso, sereno, giusto, laborioso, paziente… Comportarsi in questo modo può essere difficile, ma non sarà mai strano. Se qualcuno ne rimane meravigliato, vuol dire che vede le cose con sguardo torbido, offuscato da una segreta viltà, che altro non è che mancanza di vigore.

Quando un'anima si sforza di coltivare le virtù umane, il suo cuore è già molto vicino a Cristo. Il cristiano comprende che le virtù teologali — la fede, la speranza, la carità — e tutte le altre virtù che la grazia di Dio porta con sé, lo spingono a non trascurare mai le buone qualità che ha in comune con tanti uomini.

Le virtù umane — ripeto — sono il fondamento di quelle soprannaturali, le quali, a loro volta, danno sempre nuovo impulso ad agire come uomini di bene. Ma, in ogni caso, non basta il desiderio di possedere tali virtù, bisogna imparare a praticarle. Discite benefacere (Is 1, 17), imparate a fare il bene. Bisogna esercitarsi continuamente negli atti corrispondenti a tali virtù — con fatti di sincerità, di veracità, di equanimità, di serenità, di pazienza… —, perché le opere sono amore e non si può amare Dio solo a parole, ma coi fatti e nella verità (1 Gv 3, 18).

Se il cristiano lotta per acquistare tali virtù, la sua anima si dispone a ricevere efficacemente la grazia dello Spirito Santo; allora le buone qualità umane si rafforzano mediante le mozioni che il Paraclito pone nell'anima. La Terza Persona della Trinità Beatissima — dolce ospite dell'anima (Sequenza Veni, Sancte Spiritus) — regala i suoi doni: dono di sapienza, di intelletto, di consiglio, di fortezza, di scienza, di pietà, di timor di Dio (cfr Is 11, 2).

Si notano allora il gaudio e la pace (cfr Gal 5, 22), la pace lieta, il giubilo interiore, come conseguenza della virtù umana della gioia. Quando ci sembra che tutto crolli davanti ai nostri occhi, non crolla nulla, perché Tu sei il Dio della mia difesa (Sal 42, 2). Se Dio abita nell'anima nostra, tutto il resto, per importante che sembri, è accidentale, transeunte; invece noi, in Dio, siamo ciò che permane.

Lo Spirito Santo, col dono della pietà, ci aiuta a sentirci con sicurezza figli di Dio. E se siamo figli di Dio, come possiamo esser tristi? La tristezza è la scoria dell'egoismo; se cerchiamo di vivere per il Signore, non ci mancherà la gioia, anche se scopriamo in noi errori e miserie. La gioia penetra a tal punto nella vita d'orazione, che non si può fare a meno di mettersi a cantare: perché amiamo, e cantare è cosa da innamorati.

Se viviamo in questo modo, realizzeremo nel mondo un compito di pace; sapremo rendere amabile agli altri il servizio al Signore, perché Dio ama chi dona con gioia (2 Cor 9, 7). Il cristiano è uno dei tanti nella società; ma dal suo cuore traboccherà la gioia di chi si propone di realizzare, con l'aiuto costante della grazia, la Volontà del Padre. E nel fare ciò non si sente vittima, né in situazione di inferiorità, né coartato. Cammina a testa alta, perché è uomo e perché è figlio di Dio.

La nostra fede dà pieno rilievo a tutte queste virtù che nessuno dovrebbe trascurare di coltivare. Nessuno può superare il cristiano in umanità. Perciò chi segue Cristo è capace — non per merito proprio, ma per grazia di Dio — di comunicare a quanti lo circondano ciò che sovente intuiscono, ma non arrivano a comprendere: che la vera felicità, l'autentico servizio al prossimo, passano necessariamente attraverso il Cuore del nostro Redentore, perfectus Deus, perfectus homo.

Ricorriamo a Maria, Madre nostra, la creatura più eccelsa uscita dalle mani di Dio. Chiediamole di renderci uomini operatori di bene e che quelle virtù umane, intrecciandosi con la vita della grazia, si trasformino nell'aiuto più grande che possiamo dare a coloro che con noi lavorano nel mondo per la pace e la felicità di tutti.

Riferimenti alla Sacra Scrittura
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