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Ci sono 10 punti in «È Gesù che passa» il cui argomento è Gesù Cristo  → il cristiano, altro Cristo .

Abbiamo cercato di ricordare e commentare alcuni lineamenti dei focolari in cui si riflette la luce di Cristo, e che sono perciò focolari luminosi e allegri: in essi l'armonia che regna tra i genitori si trasmette ai figli, a tutta la famiglia e all'ambiente circostante. Così, in ogni famiglia autenticamente cristiana, si riproduce in un certo modo il mistero della Chiesa, scelta da Dio e inviata come guida del mondo.

A ogni cristiano, qualunque sia la sua condizione — sacerdote o laico, sposato o celibe — si adattano pienamente le parole dell'Apostolo che si leggono nell'epistola della festa della Sacra Famiglia: Scelti da Dio, santi e amati (Col 3, 12). Tali siamo tutti noi, ciascuno nel suo posto nel mondo, nel luogo che a ciascuno è proprio: uomini e donne scelti da Dio per rendere testimonianza a Cristo e portare a chi ci circonda la gioia di sapersi figli di Dio, nonostante i nostri errori, contro cui dobbiamo lottare efficacemente.

È molto importante che il senso vocazionale del matrimonio sia sempre presente, tanto nella catechesi e nella predicazione quanto nella coscienza di coloro che Dio prepara a questo cammino, poiché è attraverso di esso che sono realmente chiamati a incorporarsi al disegno divino di salvezza di tutti gli uomini.

Non si può quindi proporre agli sposi cristiani un modello migliore di quello delle famiglie dei tempi apostolici: la famiglia del centurione Cornelio, che fu docile alla volontà di Dio e nella cui casa si realizzò l'apertura della Chiesa ai gentili (cfr At 10, 24-48), quella di Aquila e Priscilla, che diffusero il cristianesimo a Corinto e a Efeso e collaborarono all'apostolato di san Paolo (cfr At 18, 1-26); quella di Tabita, che con la sua carità soccorse i bisognosi di Joppe (cfr At 9, 36), e tanti altri focolari di giudei e di gentili, di greci e di romani, nei quali attecchì la predicazione dei primi discepoli del Signore.

Famiglie che vissero di Cristo e che fecero conoscere Cristo; piccole comunità cristiane che furono come centri di irradiazione del messaggio evangelico. Focolari come tanti altri di quei tempi, ma animati da uno spirito nuovo che contagiava chi li avvicinava e li frequentava. Così furono i primi cristiani, e così dobbiamo essere noi, cristiani di oggi: seminatori di pace e di gioia, della pace e della gioia che Gesù ci ha guadagnato.

Qui habitat in adiutorio Altissimi, in protectione Dei coeli commorabitur (Sal 90, 1), abitare sotto la protezione di Dio, vivere con Dio: in questo consiste la rischiosa sicurezza del cristiano. Bisogna persuadersi che Dio ci ascolta, che è accanto a noi: e il nostro cuore si riempirà di pace. Ma vivere con Dio è indubbiamente un rischio, perché il Signore non si accontenta di condividere: chiede tutto. E avvicinarsi un po' di più a Lui vuol dire essere disposti a una nuova conversione, a una nuova rettificazione, ad ascoltare più attentamente le sue ispirazioni, i santi desideri che egli fa sbocciare nella nostra anima, e a metterli in pratica.

Certo, dai tempi della nostra prima decisione cosciente di vivere integramente la dottrina di Cristo, abbiamo fatto molti passi sulla strada della fedeltà alla sua Parola. Eppure, non è vero che restano ancora tante cose da fare? Non è vero che resta, soprattutto, tanta superbia? C'è indubbiamente bisogno di un nuovo cambiamento, di una lealtà più piena, di un'umiltà più profonda, affinché diminuisca il nostro egoismo e Cristo cresca in noi; infatti, illum oportet crescere, me autem minui (Gv 3, 30), bisogna che Egli cresca e che io diminuisca.

Non si può rimanere inerti. È necessario avanzare verso la meta indicata da san Paolo: Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2, 20). L'ambizione è grande e nobile: è l'identificazione con Cristo, la santità. D'altronde non c'è altra strada se si desidera essere coerenti con la vita divina che Dio stesso, mediante il battesimo, ha fatto nascere nelle nostre anime. Andare avanti significa progredire in santità; si retrocede, invece, se si rinuncia allo sviluppo della vita cristiana. Il fuoco dell'amore di Dio ha bisogno di essere alimentato, di crescere ogni giorno, di gettare profonde radici nell'anima; e il fuoco si mantiene vivo a condizione di bruciare cose sempre nuove. Se non avvampa, rischia di estinguersi.

Ricordate le parole di Sant'Agostino: Se dici basta, sei perduto. Guarda sempre avanti, cammina sempre, avanza sempre. Non restare allo stesso posto, non retrocedere, non sbagliare strada (SANT’AGOSTINO, Sermo 169, 15 [PL 38, 926]).

La Quaresima ci pone davanti a degli interrogativi fondamentali: cresce la mia fedeltà a Cristo, il mio desiderio di santità? Cresce la generosità apostolica nella mia vita di ogni giorno, nel mio lavoro ordinario, fra i miei colleghi? Ognuno risponda silenziosamente, in cuor suo, a queste domande e scoprirà che è necessaria una nuova trasformazione perché Cristo viva in noi, perché la sua immagine si rifletta limpidamente nella nostra condotta.

Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua (Lc 9, 23). È Cristo che ce lo ripete di nuovo, sottovoce, intimamente: la Croce ogni giorno. Non è solo — scrive san Gerolamo — intempo di persecuzione e sotto la costrizione del martirio che dobbiamo rinnegare noi stessi quali eravamo in passato, ma in ogni attimo della nostra vita, nelle opere, nei pensieri e nelle parole; e dobbiamo far vedere che siamo degli esseri effettivamente rinati in Cristo (SAN GEROLAMO, Ep 121, 3 [PL 22, 1013]).

Queste considerazioni non sono, in realtà, altro che l'eco di quelle dell'Apostolo: Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore (Ef 5, 8-10).

La conversione è cosa di un istante; la santificazione è opera di tutta la vita. Il seme divino della carità, che Dio ha posto nelle nostre anime, aspira a crescere, a manifestarsi in opere e a produrre frutti che in ogni momento corrispondano ai desideri del Signore. È indispensabile quindi essere disposti a ricominciare, a ritrovare, nelle nuove situazioni della nostra vita, la luce e l'impulso della prima conversione. E questa è la ragione per cui dobbiamo prepararci con un approfondito esame di coscienza, chiedendo aiuto al Signore, per poterlo conoscere meglio e per conoscere meglio noi stessi. Se vogliamo convertirci di nuovo, questa è l'unica strada.

La lotta del cristiano non ha soste, perché nella vita interiore si verifica quel continuo cominciare e ricominciare che impedisce che a un dato momento la superbia ci faccia considerare perfetti. È inevitabile che vi siano molte difficoltà nel nostro cammino; se non trovassimo ostacoli, non saremmo creature di carne ed ossa. Vi saranno sempre delle passioni pronte a trascinarci in basso, e dovremo sempre difenderci da tali deliri, più o meno veementi.

Il fatto di sentire nel corpo e nell'anima il pungolo della superbia, della sensualità, dell'invidia, della pigrizia, dello spirito di sopraffazione, non dovrebbe costituire una scoperta. Si tratta di un male antico, sistematicamente verificato nella nostra esperienza personale; esso è il punto di partenza e l'atmosfera abituale per vincere in questo intimo sport, nella nostra corsa verso la casa del Padre. San Paolo insegna infatti: Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l'aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù, perché non succeda che dopo aver predicato agli altri, venga io stesso squalificato (1 Cor 9, 26-27).

Per cominciare a sostenere la prova, il cristiano non deve aspettare segnali esterni o stati d'animo favorevoli. Nella vita interiore ciò che conta non sono gli stati d'animo, ma la grazia divina, la volontà, l'amore. Tutti i discepoli furono capaci di seguire Gesù nell'ora del trionfo a Gerusalemme, ma quasi tutti lo abbandonarono nell'ora ignominiosa della Croce.

Per amare sul serio è necessario essere forti, leali, avere il cuore saldamente ancorato alla fede, alla speranza e alla carità. Solo chi è inconsistente e fatuo muta capricciosamente l'oggetto dei suoi affetti, che in realtà non sono affetti, ma soddisfazioni egoistiche. Quando c'è amore c'è lealtà, vale a dire capacità di donazione, di sacrificio, di rinuncia. E nel bel mezzo della donazione, del sacrificio e della rinuncia, pur con il tormento delle contrarietà, si trovano la felicità e la gioia; una gioia che nulla e nessuno potrà toglierci.

In questa giostra d'amore, le cadute non devono avvilirci, ancorché fossero gravi, purché ci rivolgiamo a Dio nel Sacramento della Penitenza con dolore sincero e proposito retto. Il cristiano non è un collezionista fanatico di certificati di servizio senza macchia. Gesù Nostro Signore, che tanto si commuove dinanzi all'innocenza e alla fedeltà di Giovanni, si intenerisce allo stesso modo, dopo la caduta di Pietro, per il suo pentimento. Gesù, che comprende la nostra fragilità, ci attrae a sé guidandoci come per un piano inclinato ove si sale a poco a poco, giorno per giorno, perché desidera che il nostro sforzo sia perseverante. Ci cerca come cercò i discepoli di Emmaus, andando loro incontro; come cercò Tommaso per mostrargli e fargli toccare con le sue stesse mani le piaghe aperte sul suo corpo. Proprio perché conosce la nostra fragilità Gesù attende sempre che torniamo a Lui.

Il cristiano sa di essere inserito in Cristo mediante il Battesimo; reso idoneo a lottare per Cristo mediante la Cresima; chiamato a operare nel mondo mediante la partecipazione alla funzione regale, profetica e sacerdotale di Cristo; reso una cosa sola con Cristo mediante l'Eucaristia, Sacramento dell'unità e dell'amore. Per questo, come Cristo, il cristiano deve vivere per gli altri uomini, guardando con amore ciascuno di coloro che lo circondano e l'umanità tutta.

La fede ci porta a riconoscere Cristo come Dio, a vederlo come nostro Salvatore, a identificarci con Lui operando come Egli operò. Il Risorto, dopo aver sciolto tutti i dubbi dell'apostolo Tommaso mostrandogli le proprie piaghe, esclama: Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno (Gv 20, 29). Qui — commenta san Gregorio Magno — si parla in modo particolare di noi che possediamo spiritualmente Colui che non abbiamo visto corporalmente. Si parla di noi, ma a condizione che le nostre azioni siano conformi alla nostra fede. Crede veramente solo colui che, nelle sue azioni, mette in pratica ciò che crede. Per questo, a proposito di coloro che della fede possiedono solo le parole, san Paolo dice: « Dicono di conoscere Dio, ma lo negano con le opere » (SAN GREGORIO MAGNO, In Evangelia homiliae, 26, 9 [PL 76, 1202]).

Non è possibile separare in Cristo il suo essere Dio-Uomo e la sua funzione di Redentore. Il Verbo si fece carne e venne sulla terra ut omnes homines salvi fiant (cfr 1 Tm 2, 4), per salvare tutti gli uomini. Nonostante le nostre miserie e le nostre limitazioni, ciascuno di noi è un altro Cristo, lo stesso Cristo, anche noi chiamati a servire tutti gli uomini.

È necessario far risuonare ancora una volta quel comandamento che resterà in vigore nei secoli: Carissimi — dice san Giovanni — non vi scrivo un nuovo comandamento, ma un comandamento antico, che avete ricevuto fin da principio. Il comandamento antico è la parola che avete udito. E tuttavia è un comandamento nuovo quello di cui vi scrivo, il che è vero in lui e in voi, perché le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende. Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, dimora nella luce e non v'è in lui occasione di inciampo (1 Gv 2, 7-10).

Nostro Signore è venuto a portare la pace, la buona novella, la vita a tutti gli uomini. Non ai ricchi soltanto, e nemmeno soltanto ai poveri. Non solo ai sapienti, né solo agli ingenui. A tutti. Ai fratelli, perché siamo tutti fratelli, figli di uno stesso Padre, Dio. Per cui non c'è che una razza: la razza dei figli di Dio. Non c'è che un colore: il colore dei figli di Dio. E non c'è che una lingua: quella che parla al cuore e alla mente e, senza suono di parole, ci fa conoscere Dio, e fa sì che ci amiamo scambievolmente.

È questo l'amore di Cristo, che ciascuno di noi deve sforzarsi di realizzare nella propria vita. Ma per essere ipse Christus bisogna rispecchiarsi in Lui. Non è sufficiente avere un'idea generica dello spirito di Gesù; bisogna imparare da Lui dettagli e atteggiamenti. E, soprattutto, bisogna contemplare il suo passaggio sulla terra, le sue orme, per trarne forza, luce, serenità, pace.

Quando si ama una persona si desidera sapere anche i minimi particolari della sua esistenza, del suo carattere, per avvicinarsi il più possibile a lei. Per questo dobbiamo meditare la storia di Cristo, dalla nascita nel presepio fino alla morte e alla risurrezione. Nei primi anni del mio lavoro sacerdotale, regalavo spesso il Vangelo o libri in cui si narrava la vita di Gesù: perché è necessario conoscerla bene, averla ben presente nella mente e nel cuore, in modo che, in ogni momento, senza più bisogno di libri, chiudendo gli occhi, possiamo contemplarla come in un film e, quando dobbiamo decidere come comportarci, possiamo richiamare alla mente le parole e i gesti del Signore.

Allora ci sentiremo innestati nella sua vita. Non si tratta solo di pensare a Gesù, di rappresentarci quelle scene: dobbiamo prendervi parte, esserne attori, seguire Cristo standogli accanto come la Madonna, come i primi dodici, come le sante donne, come le moltitudini che si affollavano intorno a Lui. Se ci comportiamo così, se non frapponiamo ostacoli, le parole di Cristo penetreranno nel fondo della nostra anima e ci trasformeranno. Perché la parola di Dio è viva, efficace, è più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore (Eb 4, 12).

Se vogliamo condurre al Signore altri uomini, è necessario ricorrere al Vangelo e contemplare l'amore di Cristo. Potremmo fermarci alle scene culminanti della Passione, perché, come Egli stesso disse, nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici (Gv 15, 13). Ma possiamo considerare anche il resto della sua vita, il suo modo abituale di trattare coloro che incontrava.

Cristo, perfetto Dio e perfetto Uomo, per far arrivare agli uomini la sua dottrina di salvezza e per manifestare loro l'amore di Dio, procedette in modo umano e divino. Dio scende al nostro livello, assume senza riserve la nostra natura, fatta eccezione per il peccato.

Mi riempie di gioia considerare che Cristo ha voluto essere pienamente uomo, di carne come noi. Mi commuove contemplare il fatto meraviglioso di un Dio che ama con un cuore umano.

Non c'è nulla che sia estraneo alle attenzioni di Cristo. Parlando con rigore teologico, senza limitarci a una classificazione funzionale, non si può dire che ci siano realtà — buone, nobili, e anche indifferenti — esclusivamente profane: perché il Verbo di Dio ha stabilito la sua dimora in mezzo ai figli degli uomini, ha avuto fame e sete, ha lavorato con le sue mani, ha conosciuto l'amicizia e l'obbedienza, ha sperimentato il dolore e la morte. Perché piacque a Dio di fare abitare in Cristo ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli (Col 1, 19-20).

Dobbiamo amare il mondo, il lavoro, le realtà umane. Perché il mondo è buono: il peccato di Adamo ruppe la divina armonia del creato, ma Dio ha inviato suo Figlio Unigenito a ristabilire la pace. E così noi, divenuti figli di adozione, possiamo liberare la creazione dal disordine e riconciliare tutte le cose con Dio.

Ogni situazione umana è irripetibile, è il risultato di una vocazione unica che si deve vivere intensamente, realizzando in essa lo spirito di Cristo. E quando si vive cristianamente fra i propri simili, in maniera non appariscente ma coerente con la fede, ciascuno di noi è Cristo presente fra gli uomini.

Se sappiamo contemplare il Mistero di Cristo e cerchiamo di considerarlo con occhi limpidi, ci renderemo conto che anche ora è possibile avvicinare intimamente Gesù, corpo e anima. Cristo ci ha indicato chiaramente il cammino che passa attraverso il Pane e la Parola: alimentiamoci quindi con l'Eucaristia, e conosciamo e pratichiamo ciò che Gesù venne a insegnarci, conversando con Lui nell'orazione. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui (Gv 6, 56). Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. E chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui (Gv 14, 21).

Non sono solo promesse. Sono la sostanza, la realtà intima di una vita autentica: la vita della grazia, che ci spinge a trattare Dio personalmente e direttamente. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore (Gv 15, 10). Queste parole di Gesù, nel discorso dell'ultima cena, sono la migliore introduzione al giorno dell'Ascensione. Cristo sa che è necessario che se ne vada; perché, in un modo misterioso, per noi incomprensibile, dopo l'Ascensione sarebbe venuta — in una nuova effusione dell'Amore divino — la terza Persona della Trinità Beatissima: Vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò (Gv 16, 7).

Se ne è andato e ci manda lo Spirito Santo che guida e santifica la nostra anima. L'opera del Paraclito in noi conferma ciò che Cristo annunciava: noi siamo figli di Dio, noi non abbiamo ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: « Abbà, Padre! » (Rm 8, 15).

Vedete? È l'azione della Trinità nelle nostre anime. Se ogni cristiano corrisponde alla grazia che ci porta all'unione con Cristo nel Pane e nella Parola, nell'Ostia Santa e nell'orazione, è ammesso a ospitare Dio che inabita nel più intimo del suo essere. La Chiesa porta ogni giorno alla nostra considerazione la realtà del Pane vivo, a cui dedica due delle grandi feste dell'anno liturgico, il Giovedì Santo e il Corpus Domini. Oggi, nell'Ascensione, intratteniamoci con Gesù, ascoltando attentamente la sua parola.

Con la meravigliosa semplicità delle cose divine, l'anima contemplativa trabocca in sollecitudine apostolica: Ardeva il mio cuore dentro di me; il fuoco divampa nella mia meditazione (Sal 38, 4). Quale altro fuoco, se non lo stesso fuoco di cui parla Cristo? Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e che cosa posso desiderare se non che arda? (cfr Lc 12, 49). Fuoco d'apostolato che si alimenta nell'orazione. Per condurre ovunque sulla terra la battaglia di pace cui ogni cristiano è chiamato a partecipare, non c'è mezzo migliore che questo: compiere quel che rimane a Cristo da patire (cfr Col 1, 24).

Gesù è salito al Cielo, dicevamo. Ma il cristiano può, nell'orazione e nell'Eucaristia, trattarlo come lo trattarono i primi dodici e infiammarsi del suo zelo apostolico per compiere con Lui un servizio di corredenzione, che è una semina di pace e di gioia. Servire, dunque, perché l'apostolato non è che questo. Se facciamo affidamento soltanto sulle nostre forze, non otterremo alcun frutto soprannaturale; ma facendoci strumenti di Dio, otterremo tutto: Tutto posso in colui che mi dà la forza (Fil 4, 13). Dio, nella sua infinita bontà, ha stabilito di utilizzare degli strumenti inetti. E l'apostolo non ha altra scelta che lasciare agire il Signore, offrendosi, interamente disponibile, affinché Dio realizzi — servendosi delle sue creature, dell'anima prescelta — la sua opera salvifica.

È apostolo il cristiano che si sente innestato in Cristo, identificato con Cristo a motivo del suo Battesimo; reso idoneo a lottare per Cristo grazie alla Confermazione; chiamato a servire Dio attraverso il proprio agire nel mondo in virtù del sacerdozio comune dei fedeli, che conferisce una certa partecipazione al sacerdozio di Cristo, la quale, pur essendo essenzialmente diversa da quella del sacerdozio ministeriale, rende idonei a prendere parte al culto della Chiesa e ad aiutare gli uomini nel loro cammino verso Dio, con la testimonianza della parola e dell'esempio, con l'orazione e l'espiazione.

Ciascuno di noi dov'essere ipse Christus. Egli è l'unico mediatore tra Dio e gli uomini (cfr 1 Tm 2, 5); e noi ci uniamo a Lui per offrire, con Lui, tutte le cose al Padre. La nostra vocazione di figli di Dio, in mezzo al mondo, esige da noi non solo la ricerca della santità personale, ma ci spinge anche a percorrere tutti i cammini della terra per trasformarli in varchi, aperti in mezzo agli ostacoli, che conducono le anime al Signore; ci spinge a prendere parte, come cittadini, a tutte le attività temporali, per essere lievito (cfr Mt 13, 33) che fa fermentare tutta la massa (cfr 1 Cor 5, 6).

Cristo è asceso al Cielo, ma ha concesso a tutte le realtà umane oneste la possibilità concreta di essere redente.

San Gregorio Magno raccoglie questo grande tema cristiano con parole incisive: Gesù, dunque, partiva per il luogo dal quale proveniva, e ritornava dal luogo in cui continuava a dimorare. E infatti, nel momento in cui saliva al cielo, univa con la sua divinità il cielo e la terra. Nella festa odierna conviene risaltare solennemente il fatto che è stato soppresso il decreto che ci condannava, il giudizio che ci assoggettava alla corruzione. La natura cui si dirigevano le parole "tu sei polvere e in polvere ritornerai"(Gn 3, 19), questa stessa natura è ascesa oggi al cielo con Cristo (SAN GREGORIO MAGNO, In Evangelia homiliae, 29, 10 [PL 76, 1218]).

Non mi stancherò pertanto di ripetere che il mondo può essere santificato e che a noi cristiani tocca in modo particolare questo compito: purificare il mondo dalle occasioni di peccato con cui gli uomini lo imbrattano, e offrirlo al Signore come ostia spirituale, presentata e dignificata dalla grazia di Dio e dal nostro impegno. A rigore, non si può dire che ci siano realtà nobili che siano esclusivamente profane, dal momento che il Verbo si è degnato di assumere integralmente la natura umana e di consacrare la terra con la sua presenza e con il lavoro delle sue mani. La grande missione che riceviamo nel Battesimo è la corredenzione. La carità di Cristo ci spinge (cfr 2 Cor 5, 14) a caricare su di noi parte del compito divino di riscattare le anime.

Vedo tutti gli avvenimenti della vita — quelli di ogni esistenza individuale, e in certo modo quelli delle grandi svolte della storia — come altrettanti appelli che Dio rivolge agli uomini perché affrontino la verità: e anche come occasioni offerte a noi cristiani per annunciare con le nostre opere e le nostre parole, aiutati dalla grazia, lo Spirito al quale apparteniamo (cfr Lc 9, 55).

Ogni generazione di cristiani deve redimere e santificare il suo tempo, e per riuscirci deve comprendere e condividere le ansie degli altri uomini, a loro uguali, per far loro conoscere, con il dono delle lingue, come devono corrispondere all'azione dello Spirito Santo, all'effusione permanente delle ricchezze del Cuore divino. Tocca a noi cristiani del nostro tempo annunciare oggi, a questo mondo al quale apparteniamo e nel quale viviamo, il messaggio antico e nuovo del Vangelo.

Non è vero che tutto il mondo attuale — globalmente considerato — sia chiuso o indifferente a ciò che insegna la fede cristiana circa il destino e l'essere dell'uomo; non è vero che gli uomini di oggi si occupino soltanto delle cose della terra e non si curino più di guardare il cielo.

Certo, non mancano ideologie chiuse — e persone che le appoggiano ostinatamente — ma nella nostra epoca ci sono molte cose: alti ideali e atteggiamenti meschini, eroismo e codardia, progetti ambiziosi e delusioni; c'è gente che sogna un mondo nuovo, più giusto e più umano, e gente che invece, magari delusa dal crollo degli ideali in cui credeva, si rifugia nell'atteggiamento egoista di chi non cerca altro che la propria tranquillità, o permane immerso nell'errore.

A tutti costoro, uomini e donne, dovunque si trovino, nei momenti di entusiasmo e nei momenti di crisi o di fallimento, noi dobbiamo far giungere l'annuncio solenne e categorico che san Pietro fece nei giorni che seguirono la Pentecoste: Gesù è la pietra d'angolo, il Redentore, il tutto della nostra vita, perché al di fuori di lui non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati (At 4, 12).

È dunque necessaria una fede grande, che vinca sia lo scoraggiamento, sia la tentazione di calcoli puramente umani. Per superare gli ostacoli, è necessario mettere mano al lavoro, impadronirci del compito che ci tocca, affinché lo stesso sforzo ci apra nuovi sentieri. La panacea per ogni difficoltà è una sola: santità personale, dedizione al Signore.

Essere santi vuol dire, né più né meno, vivere come ha stabilito il Padre nostro che è nei Cieli. Mi direte che è difficile. E lo è; l'ideale è ben alto. Ma al tempo stesso è facile, perché è a portata di mano. Quando qualcuno cade ammalato, gli può capitare di non trovare la medicina adatta. Sul piano soprannaturale questo non avviene. La medicina è sempre vicina: è Cristo Gesù, presente nella Sacra Eucaristia, che ci dà la sua grazia anche attraverso gli altri Sacramenti che ha voluto istituire.

Ripetiamo, dunque, con le parole e con le opere: Signore, confido in te; mi basta la tua provvidenza ordinaria, il tuo aiuto d'ogni giorno. Non dobbiamo chiedere al Signore grandi miracoli. Dobbiamo piuttosto supplicarlo di aumentare la nostra fede, di illuminare la nostra intelligenza, di fortificare la nostra volontà. Gesù resta sempre vicino a noi e si comporta sempre per quello che è.

Fin dall'inizio della mia predicazione vi ho messo in guardia contro una falsa deificazione. Non turbarti quindi nel riconoscerti come sei: una creatura di fango. Non preoccuparti. Perché tu e io siamo figli di Dio — ecco la vera deificazione — scelti per chiamata divina fin dall'eternità: Ci ha scelti, il Padre, in Gesù Cristo, prima della fondazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto (cfr Ef 1, 4). Noi, che apparteniamo a Dio in modo peculiare e che, nonostante la nostra miseria, siamo strumenti suoi, saremo efficaci nella misura in cui non perderemo la cognizione della nostra debolezza. Le tentazioni ci segnalano le dimensioni della nostra miseria.

Se provate tristezza costatando con evidenza la meschinità della vostra condizione, vuol dire che è giunto il momento dell'abbandono completo e docile nelle mani di Dio. Narrano di un mendicante che un giorno si fece incontro ad Alessandro Magno chiedendo l'elemosina. Alessandro si fermò e diede ordine che lo facessero signore di cinque città. Il poveretto, sconcertato, esclamò: « Io non chiedevo tanto! ». E Alessandro, di rimando: « Tu hai chiesto da quel che sei; io ti ho dato da quel che sono ». E noi, dunque, anche nei momenti in cui più brutalmente costatiamo i nostri limiti, possiamo e dobbiamo rivolgerci a Dio Padre, a Dio Figlio e a Dio Spirito Santo, consapevoli di partecipare alla vita divina. Non esistono ragioni sufficienti a farci volgere indietro lo sguardo (cfr Lc 9, 62); il Signore è con noi. Dobbiamo affrontare i nostri doveri fedelmente e lealmente, cercando in Gesù l'amore e lo stimolo per comprendere gli errori altrui e superare i nostri. E così la nostra miseria, la tua, la mia e quella di tutti gli uomini, servirà di sostegno al regno di Cristo.

Riconosciamo le nostre infermità, ma confessiamo la potenza di Dio. La vita cristiana deve essere informata dall'ottimismo, dalla gioia, dalla certezza che il Signore vuole servirsi di noi. Consapevoli di essere parte della Chiesa santa, di essere saldamente ancorati alla roccia di Pietro e sostenuti dall'azione dello Spirito Santo, ci decideremo a compiere il piccolo dovere di ogni istante: seminare ogni giorno un po'. Il raccolto traboccherà dai granai.