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Ci sono 7 punti in «Colloqui con monsignor Escrivá» il cui argomento è Santità → chiamata universale .

Vorrebbe descrivere come si è sviluppata e come si è evoluta l'Opus Dei dopo la fondazione, sia riguardo alle sue caratteristiche che ai suoi obiettivi, in un periodo che è stato testimone di un enorme cambiamento all'interno di tutta la Chiesa?

Fin dal primo momento l'unico obiettivo dell'Opus Dei è stato quello che ho già descritto: contribuire a far sì che vi siano in mezzo al mondo uomini e donne di ogni razza e condizione sociale, che cerchino di amare e di servire Dio e gli uomini nel loro lavoro ordinario e per mezzo di esso. Dall'inizio dell'Opera, nel 1928, la mia predicazione è stata questa: la santità non è un privilegio di pochi, perché possono essere divini tutti i cammini della terra, tutte le condizioni di vita, tutte le professioni, tutte le occupazioni oneste. Le implicazioni di questo messaggio sono molte e l'esperienza della vita dell'Opera mi ha aiutato a conoscerle con sempre maggior profondità e ricchezza di sfumature. L'Opera è nata piccola ed è cresciuta normalmente, in modo graduale e progressivo, come cresce un organismo vivo, come tutto ciò che si sviluppa nella storia.

Ma il suo obiettivo e la sua ragion d'essere non sono cambiati e non cambieranno per quanto possa cambiare la società, perché il messaggio dell'Opus Dei è che si può santificare ogni lavoro onesto, quali che siano le circostanze in cui si svolge.

Oggi fanno parte dell'Opera persone di tutte le professioni: non solo medici, avvocati, ingegneri e artisti, ma anche muratori, minatori, contadini. Tutte le professioni, dunque: dai registi cinematografici e dai piloti di reattori alle parrucchiere di alta moda. Per i soci dell'Opus Dei essere aggiornati, comprendere il mondo moderno è qualcosa di naturale e di istintivo, perché sono essi — con gli altri cittadini e uguali a loro — che fanno nascere questo mondo e gli conferiscono modernità.

Essendo questo lo spirito della nostra Opera, comprenderà che è stata una grande gioia per noi vedere che il Concilio ha dichiarato solennemente che la Chiesa non respinge il mondo in cui vive, né il suo progresso e sviluppo, ma lo comprende e lo ama. Del resto, è una caratteristica centrale della spiritualità che i soci dell'Opera si sforzano di vivere — da ormai quarant'anni —, la consapevolezza di essere allo stesso tempo parte della Chiesa e dello Stato: ciascuno si assume quindi completamente, con libertà piena, la propria responsabilità individuale di cristiano e di cittadino.

Qualcuno ha affermato che l'Opus Dei è internamente organizzato come le società segrete. Che cosa ci può dire riguardo a queste voci? Potrebbe anche dirci qual è, in sintesi, il messaggio che ha voluto rivolgere agli uomini del nostro tempo fondando l'opera nel 1928?

Fin dal 1928 ho predicato incessantemente che la santità non è riservata a pochi privilegiati, che possono essere divini tutti i cammini della terra, perché il perno della spiritualità specifica dell'Opus Dei è la santificazione del lavoro quotidiano. Bisogna respingere il pregiudizio secondo cui i semplici fedeli dovrebbero limitarsi ad aiutare il clero in attività di carattere ecclesiastico. Bisogna pure rendersi conto che gli uomini, per raggiungere il loro fine soprannaturale, hanno bisogno di essere e di sentirsi personalmente liberi, con quella libertà che Gesù Cristo ci ha conquistato. E io, per predicare questa dottrina e per insegnare a praticarla, non ho mai avuto bisogno di nessun segreto. I soci dell'Opera detestano il segreto perché sono dei fedeli comuni, in tutto e per tutto uguali agli altri. Per il fatto di aderire all'Opus Dei non cambiano di stato.

Naturalmente sarebbe assurdo che dovessero andare in giro con un cartello addosso con su scritto: “Io mi dedico al servizio di Dio” Questo modo di fare non sarebbe né laicale, né secolare. Però tutti coloro che conoscono e frequentano i soci dell'Opus Dei sanno bene che fanno parte dell'Opera, perché non lo proclamano ai quattro venti, ma neppure lo nascondono.

Io ho avuto occasione di ascoltare le risposte che ella diede alle domande rivoltele da un pubblico di più di duemila persone riunite circa un anno e mezzo fa a Pamplona. In quella occasione lei ha sottolineato in modo particolare l'esigenza che i cattolici si comportino come cittadini liberi, responsabili, e che "non vivano sfruttando il fatto di essere cattolici". Che importanza attribuisce a questa idea e quale ne è, a suo giudizio, l'esatta portata?

Mi ha sempre infastidito il contegno di coloro che si servono del nome di cattolici per farne una qualifica professionale; come pure il contegno di coloro che negano la responsabilità personale, che è il principio su cui si basa tutta la morale cristiana. Lo spirito dell'Opera e quello dei suoi soci è questo: servire la Chiesa e tutti gli uomini, senza servirsi della Chiesa. A me piace che il cattolico porti Cristo non nel titolo ma nella condotta, e offra una testimonianza reale di vita cristiana. Detesto il clericalismo e comprendo che, accanto a un anticlericalismo inaccettabile, ci sia anche un sano anticlericalismo, che nasce dall'amore per il sacerdozio e che non consente che il semplice fedele o il sacerdote si serva di una missione sacra per ottenere vantaggi temporali.

Non intendo con questo dichiararmi contro nessuno. Nell'Opera non c'è nessuna preoccupazione esclusivista; c'è solo il desiderio di collaborare con tutti coloro che lavorano per Cristo, e con tutti coloro che, siano o no cristiani, fanno della loro vita una luminosa realtà di servizio.

Del resto, quel che conta non è tanto la portata che ho assegnato a queste idee, specialmente dal 1928, quanto quella che viene loro attribuita dal Magistero della Chiesa. Or non è molto, e suscitando in questo povero sacerdote un'emozione difficile da esprimere, l'ultimo Concilio ha ricordato a tutti i cristiani, nella Costituzione dogmatica De Ecclesia, che devono sentirsi pienamente cittadini della città terrena, lavorando a tutte le attività umane con competenza professionale e con amore per tutti gli uomini, e tendere così alla santità cristiana cui sono chiamati per il semplice fatto di aver ricevuto il Battesimo.

A che cosa attribuisce la crescente importanza che si dà all'Opus Dei? È dovuta solo all'attrattiva della sua dottrina o è anche il riflesso delle attese dell'età contemporanea?

Il Signore, nel 1928, suscitò l'Opus Dei perché i cristiani ricordassero, come narra il libro della Genesi, che Dio creò l'uomo perché lavorasse. Siamo venuti a richiamare di nuovo l'attenzione sull'esempio di Gesù che visse trent'anni a Nazaret lavorando, svolgendo un mestiere. Nelle mani di Gesù il lavoro, un lavoro professionale simile a quello di milioni di uomini in tutto il mondo, si converte in impresa divina, in attività redentrice, in cammino di salvezza.

Lo spirito dell'Opera raccoglie una realtà bellissima — dimenticata nel corso dei secoli da molti cristiani —: qualunque lavoro umanamente decoroso e onesto può convertirsi in un lavoro divino. Quando si intende servire Dio, non esistono mestieri insignificanti: tutti sono di grande importanza.

Per amare e servire Dio, non è necessario fare cose strane. Cristo chiede a tutti gli uomini, senza eccezione, di essere perfetti come è perfetto il Padre suo nei cieli (cfr Mt 5, 48). Per la maggior parte degli uomini, la santità consiste nel santificare il proprio lavoro, nel santificarsi nel lavoro e nel santificare gli altri per mezzo del lavoro, realizzando così l'incontro con Dio lungo la strada della propria vita.

Le condizioni della società contemporanea, che valorizza sempre di più il lavoro, agevolano evidentemente agli uomini del nostro tempo la comprensione di questo aspetto del messaggio cristiano che lo spirito dell'Opera è chiamato a sottolineare. Ma più importante ancora è l'influsso dello Spirito Santo, che nella sua azione vivificatrice ha voluto che il nostro tempo fosse testimone di un grande movimento rinnovatore in tutto il cristianesimo. Leggendo i decreti del Concilio Vaticano II si scorge chiaramente che parte importante di questo rinnovamento è appunto la rivalutazione del lavoro ordinario e della dignità della vocazione del cristiano che vive e lavora nel mondo.

Parte essenziale dello spirito cristiano è vivere non solo in unione con la Gerarchia ordinaria — Romano Pontefice ed Episcopato —, ma anche sentendo l'unità con gli altri fratelli nella fede. Da molto tempo ho visto che una delle maggiori iatture della Chiesa ai nostri giorni è l'ignoranza che hanno molti cattolici della vita e delle opinioni dei cattolici negli altri Paesi e negli altri ambienti della società. Bisogna far rivivere quella fraternità che i primi cristiani sentivano così profondamente. In tal modo ci sentiremo uniti, amando al tempo stesso la varietà delle vocazioni personali. E si eviteranno molti apprezzamenti ingiusti e offensivi che determinati gruppetti diffondono nell'opinione pubblica — in nome del cattolicesimo! — contro i loro fratelli nella fede che in realtà agiscono con rettitudine di intenzione e spirito di sacrificio, tenendo conto delle circostanze concrete del loro Paese.

È molto importante che ognuno si sforzi di essere fedele alla chiamata divina, perché solo cosi potrà contribuire al bene della Chiesa con il suo apporto specifico, in virtù del carisma ricevuto da Dio. Il compito proprio dei soci dell'Opus Dei — che sono dei comuni cristiani — è di santificare il mondo dal di dentro, partecipando alle più diverse attività umane. Dato che la loro appartenenza all'Opera non modifica in modo alcuno la loro situazione nel mondo, essi prendono parte, nel modo suggerito dalle diverse circostanze, alle celebrazioni religiose collettive, alla vita parrocchiale e così via. Anche sotto questo profilo essi sono dei comuni cittadini che vogliono essere dei buoni cattolici.

Ma in genere i soci dell'Opera non si dedicano ad attività confessionali; soltanto in casi eccezionali, dietro espressa richiesta della Gerarchia, qualcuno presta la propria collaborazione. E non bisogna credere che questo atteggiamento nasca dal desiderio di fare gli originali, e meno ancora dalla mancanza di considerazione per le attività confessionali; è semplicemente la conseguenza della necessità di occuparsi di ciò che è proprio della vocazione all'Opus Dei. Ci sono già molti religiosi e molti chierici, come anche molti zelanti laici, che si occupano di queste altre attività, dedicandovi i loro migliori sforzi.

Il lavoro proprio dei soci dell'Opera — il compito a cui si sanno chiamati da Dio — è diverso. Nell'ambito della vocazione universale alla santità, i membri dell'Opus Dei ricevono inoltre una vocazione speciale, che li induce a dedicarsi liberamente e responsabilmente alla ricerca della santità e all'esercizio dell'apostolato in mezzo al mondo, impegnandosi a incarnare uno spirito specifico e a ricevere, per tutta la vita, una formazione peculiare. Se trascurassero il proprio lavoro nel mondo per occuparsi delle attività ecclesiastiche, renderebbero sterili i doni divini che hanno ricevuto; con l'illusione di un'efficacia pastorale immediata, arrecherebbero un danno effettivo alla Chiesa: perché non ci sarebbero tanti cristiani che si dedicano a santificarsi in tutte le professioni e i mestieri della società civile, nel campo sconfinato del lavoro secolare.

Oltretutto, la pressante necessità di una ininterrotta formazione professionale e di una seria formazione religiosa, contando anche il tempo che ognuno personalmente dedica alle pratiche di pietà, alla preghiera e al compimento sacrificato dei doveri di stato, occupa tutta la vita: non ci sono ore libere.

Sappiamo che all'Opus Dei appartengono uomini e donne di ogni condizione sociale, sia celibi che coniugati. Qual è l'elemento comune che caratterizza la vocazione all'Opera? Quali sono gli impegni che ciascuno assume per realizzare i fini dell'Opus Dei?

Posso dirlo in poche parole: cercare la santità in mezzo al mondo, nel bel mezzo della strada. Chi riceve da Dio la vocazione specifica all'Opus Dei, ha la convinzione, e la vive, che la santità deve raggiungerla nel proprio stato, nell'esercizio del proprio lavoro, in una professione liberale o in un mestiere manuale. Ho detto che "ha la convinzione e la vive", perché non si tratta di accettare un postulato teorico, ma di realizzare questo ideale giorno per giorno, nella vita ordinaria.

Impegnarsi a cercare la santità, malgrado gli errori e le miserie personali, vuol dire impegnarsi, con la grazia di Dio, a praticare la carità, che è la pienezza della legge e il vincolo della perfezione. E la carità non è una cosa astratta; vuol dire dedizione reale e totale al servizio di Dio, e di tutti gli uomini; al servizio di Dio che ci parla nel silenzio della preghiera e nel frastuono del mondo, e al servizio degli uomini, la cui esistenza si intreccia con la nostra.

Praticando la carità — l'Amore — si attuano tutte le virtù umane e soprannaturali del cristiano, che formano un'unità e non possono ridursi a una enumerazione completa e definitiva. La carità richiede la pratica della giustizia, la solidarietà, la responsabilità famigliare e sociale, la povertà, la gioia, la castità, l'amicizia…

Si vede subito che la pratica di queste virtù conduce all'apostolato, anzi, è già di per sé apostolato: infatti, quando uno cerca di vivere così mentre svolge il suo lavoro quotidiano, la sua condotta cristiana diventa buon esempio, testimonianza, aiuto concreto ed efficace; si impara a seguire le orme di Cristo, il quale coepit facere et docere (At 1, 1), cominciò a fare e a insegnare, unendo l'esempio alla parola. Così si spiega che, da quarant'anni, quest'apostolato lo chiamo "apostolato di amicizia e di confidenza".

Tutti i soci dell'Opus Dei hanno questo medesimo impegno di santità e di apostolato. Per questo nell'Opera non ci sono gradi o categorie di soci, bensì una varietà di situazioni personali — le diverse situazioni che ciascuno ha nel mondo — alle quali si adatta perfettamente la stessa e unica vocazione specifica e divina: cioè la chiamata a una completa dedizione, a un impegno personale, libero e responsabile, nel compimento della volontà di Dio su ciascuno di noi.

Come si può vedere, il fenomeno pastorale dell'Opus Dei è qualcosa che nasce dalla base, cioè dalla vita ordinaria del cristiano che vive e lavora assieme agli altri uomini.

Non si trova sulla linea di una mondanizzazione — dissacralizzazione — della vita monastica o religiosa; non è l'ultimo stadio del processo di avvicinamento dei religiosi al mondo.

Chi riceve la vocazione all'Opus Dei riceve una nuova visione delle cose che ha intorno a sé, luci nuove nei suoi rapporti sociali, nella sua professione, nelle sue preoccupazioni, nelle sue pene e nelle sue gioie. Ma nemmeno per un istante egli smette di vivere in mezzo a tutte queste cose; e quindi completamente fuori luogo parlare di adattamento al mondo o alla società moderna, perché nessuno si adatta a ciò che già possiede come cosa propria; nelle cose che formano il proprio mondo uno ci si trova naturalmente. La vocazione che si riceve in questo modo è uguale a quella che sbocciava nell'animo di quei pescatori, contadini, commercianti o soldati che si sedevano attorno a Gesù in Galilea e lo sentivano dire: “Siate perfetti com'è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5, 48). Ripeto: questa santità — quella che cerca un socio dell'Opus Dei — è la santità propria del cristiano, senza altre aggiunte: quella cioè a cui è chiamato ogni cristiano, e che consiste nell'attuare integralmente le esigenze della fede. Non ci interessa la perfezione evangelica, che è considerata propria dei religiosi e di alcune istituzioni assimilate ai religiosi; e meno che mai ci interessa la cosiddetta vita di perfezione evangelica, che si riferisce canonicamente allo stato religioso.

La strada della vocazione religiosa la considero benedetta e necessaria alla Chiesa, e chi non la stimasse non avrebbe lo spirito dell'Opera. Ma questa non è la mia strada, né la strada dei soci dell'Opus Dei. Si può ben dire che tutti e ciascuno di loro hanno aderito all'Opus Dei con la condizione espressa di non cambiare di stato; la nostra caratteristica specifica è appunto questa: ognuno vuole santificare il proprio stato nel mondo, e si vuole santificare nel luogo del suo incontro con Cristo. Questo è l'impegno che ogni socio assume per realizzare i fini propri dell'Opus Dei.

Perché la presenza di sacerdoti in una istituzione spiccatamente laicale come l'Opus Dei? Qualsiasi socio dell'Opus Dei può divenire sacerdote, o solo quelli scelti dai dirigenti?

La vocazione all'Opus Dei può interessare qualunque persona che voglia santificarsi nel proprio stato: celibe, coniugato o vedovo; laico o chierico.

Per questo all'Opus Dei aderiscono anche dei sacerdoti diocesani, che continuano a essere dei sacerdoti diocesani come prima, giacché l'Opera li aiuta a tendere alla santità cristiana nel proprio stato mediante la santificazione del loro lavoro ordinario, che è appunto il ministero sacerdotale al servizio del proprio Vescovo, della diocesi e della Chiesa intera. Anche nel loro caso l'appartenenza all'Opera non modifica in nulla la loro condizione: restano pienamente dedicati al compimento della missione affidata loro dal rispettivo Ordinario e alle altre opere d'apostolato e attività che devono svolgere, senza che l'Opera interferisca mai in questi compiti; e si santificano appunto con la pratica il più perfetta possibile delle virtù proprie del sacerdote.

Ma oltre a questi sacerdoti che aderiscono all'Opus Dei quando già hanno ricevuto la loro ordinazione, vi sono nell'Opera altri sacerdoti secolari che ricevono il sacramento dell'Ordine quando già appartengono all'Opus Dei, cui avevano aderito da laici, come comuni cristiani. Si tratta di un numero assai ristretto di persone in rapporto al totale dei soci — non arrivano al due per cento — e si dedicano a servire i fini apostolici dell'Opus Dei con il ministero sacerdotale, rinunciando più o meno, a seconda dei casi, all'esercizio della professione civile che avevano. Sono infatti dei professionisti o dei lavoratori che vengono chiamati al sacerdozio dopo aver raggiunto una competenza professionale e aver lavorato per vari anni nel loro campo, come medici, ingegneri, meccanici, contadini, maestri, giornalisti, ecc. Compiono inoltre, con la massima profondità e senza fretta, gli studi nelle discipline ecclesiastiche corrispondenti, fino a ottenere una laurea. E tutto questo senza perdere la mentalità caratteristica dell'ambiente della propria professione civile. La loro presenza è necessaria per l'apostolato dell'Opus Dei. Questo apostolato viene svolto fondamentalmente dai laici, come ho già detto. Ognuno si sforza di essere apostolo nel proprio ambiente di lavoro, e avvicina le anime a Cristo mediante il proprio esempio e la propria parola: il dialogo. Ma nell'apostolato, nel condurre le anime sulla strada della vita cristiana, ci si imbatte nel "muro sacramentale". Il ruolo santificatore del laico ha bisogno del ruolo santificatore del sacerdote, il quale amministra il sacramento della Penitenza, celebra l'Eucaristia e proclama la parola di Dio in nome della Chiesa. E siccome l'apostolato dell'Opera presuppone una spiritualità specifica, è necessario che il sacerdote sia lui stesso una testimonianza viva di questo spirito peculiare.

Oltre al servizio che rendono agli altri soci dell'opera, questi sacerdoti possono svolgere e svolgono un servizio a tante altre anime. Lo zelo sacerdotale che informa la loro vita li deve portare a non permettere che nessuno passi vicino a loro senza ricevere un po' della luce di Cristo. E non solo questo: lo spirito dell'Opus Dei, che non ammette "gruppetti" o distinzioni, li spinge anche a sentirsi intimamente ed efficacemente uniti agli altri sacerdoti secolari, loro confratelli: e si sentono e sono di fatto sacerdoti diocesani, in tutte le diocesi in cui lavorano e che si sforzano di servire con slancio e con efficacia.

Voglio sottolineare, dato che è una realtà di notevole importanza, che questi soci laici dell'Opus Dei che ricevono l'ordinazione sacerdotale, non cambiano la loro vocazione. Quando abbracciano il sacerdozio, rispondendo liberamente all'invito dei dirigenti dell'Opera, non lo fanno con l'idea che così possono unirsi di più a Dio o tendere più efficacemente alla santità: essi sanno perfettamente che la vocazione laicale è piena e completa in sé stessa, e che la loro dedicazione a Dio nell'Opus Dei era fin dal primo momento una strada ben precisa per raggiungere la santità cristiana. L'ordinazione sacerdotale non è quindi, in nessun modo, una specie di coronamento della vocazione all'Opus Dei: è semplicemente una chiamata che viene rivolta ad alcuni perché servano gli altri in modo nuovo. Del resto, nell'Opera non vi sono due classi di soci, chierici e laici: tutti sono e si sentono uguali, e tutti vivono lo stesso spirito, la santificazione nel proprio stato3.

Riferimenti alla Sacra Scrittura
Riferimenti alla Sacra Scrittura
Note
3

In questa risposta mons. Escrivá parla di due modi in cui i sacerdoti secolari possono appartenere all'Opus Dei:

a) i sacerdoti che provengono dai membri laici dell'Opus Dei. Vengono chiamati ai sacri Ordini dal Prelato, si incardinano alla Prelatura e ne costituiscono il presbiterio. Si dedicano fondamentalmente, anche se non esclusivamente, alla cura pastorale dei fedeli incorporati all'Opus Dei, e, insieme con essi, conducono lo specifico apostolato di diffondere, in tutti gli ambienti della società, una profonda presa di coscienza della chiamata universale alla santità e all'apostolato;

b) i sacerdoti secolari già incardinati in una diocesi possono anch'essi partecipare alla vita spirituale dell'Opus Dei. Come mons. Escrivá indica all'inizio della risposta, essi possono infatti associarsi alla Società Sacerdotale della Santa Croce, associazione intrinsecamente unita alla Prelatura e della quale è Presidente generale il Prelato dell'Opus Dei.