Il rispetto cristiano per la persona e per la sua libertà

Abbiamo letto nella Santa Messa un brano del Vangelo secondo Giovanni: l'episodio della guarigione miracolosa del cieco nato. Penso che tutti ci siamo commossi ancora una volta di fronte alla potenza e alla misericordia di Dio che non guarda con indifferenza le disgrazie umane. Adesso però vorrei soffermarmi su altri aspetti, e cioè sul fatto che, quando c'è amor di Dio, anche il cristiano non si sente indifferente alla sorte degli altri e sa trattare tutti con rispetto; viceversa, quando questo amore viene meno, c'è il pericolo di un'invasione fanatica e spietata della coscienza altrui.

Mentre passava — si legge nel santo Vangelo — Gesù vide un uomo cieco dalla nascita (Gv 9, 1). Gesù che passa. Mi sono meravigliato spesso di questo modo semplice di narrare la clemenza divina. Gesù passa e si accorge subito del dolore. Considerate invece quanto fossero diversi in quel momento i pensieri dei suoi discepoli. Gli domandarono infatti: Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco? (Gv 9, 2).

Non dobbiamo sorprenderci se molti, anche fra quelli che si considerano cristiani, si comportano in modo analogo: la prima cosa che pensano è il male. Senza averne le prove, lo presuppongono. E non solo lo pensano, ma si permettono anche di esprimerlo in pubblico con giudizi avventati.

Il comportamento dei discepoli potrebbe essere considerato benevolmente come leggerezza. Ma in quella società — come del resto in quella di oggi, che in questo è cambiata di poco — c'erano altre persone, i farisei, che facevano di questo atteggiamento una norma di condotta. Ricordate in che modo Gesù Cristo li smaschera. È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e hanno detto: Ha un demonio. È venuto il Figlio dell'uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori (Mt 11, 18-19).

Attacchi sistematici alla buona fama, denigrazione di una condotta irreprensibile: Gesù Cristo soffrì questa calunnia mordace e tagliente, e non è strano che certuni riservino lo stesso trattamento a coloro che, pur coscienti delle loro comprensibili e naturali miserie e dei loro errori personali — piccoli e inevitabili, aggiungerei, data l'umana debolezza — tuttavia desiderano seguire il Maestro. Ma la costatazione di questa realtà non deve indurci a giustificare siffatti peccati e delitti — che con sospetta comprensione vogliono chiamare chiacchiere — contro il buon nome di qualcuno. Gesù avverte che se hanno chiamato Belzebù il padre di famiglia non è da sperare che si comportino meglio con quelli della sua casa (cfr Mt 10, 25): ma chiarisce pure che colui che chiamerà sciocco suo fratello sarà reo del fuoco dell'inferno (Mt 5, 22).

Da dove nasce il giudizio iniquo verso il prossimo? Si direbbe che alcuni hanno sempre davanti agli occhi delle lenti deformanti, che fanno loro vedere tutto storto. Per partito preso, non ammettono che sia possibile l'onestà, o almeno l'impegno costante per comportarsi bene. Tutto in loro è ricevuto — come dice l'antica sentenza — a misura del recipiente, e cioè a misura della loro preconcetta deformazione. Per costoro anche la cosa più onesta nasconde necessariamente una cattiva intenzione rivestita dell'apparenza ipocrita del bene. Quando scoprono chiaramente il bene — scrive san Gregorio — vanno a scrutarlo per vedere se non contiene qualche male occulto (SAN GREGORIO MAGNO, Moralia, 6, 22 [PL 75, 750]).

È difficile far capire a queste persone, nelle quali la deformazione diventa quasi una seconda natura, che è più umano e più giusto pensare bene del prossimo. Sant'Agostino dà questo consiglio: Cercate di acquistare le virtù che secondo voi mancano ai vostri fratelli, e così non vi accorgerete più dei loro difetti, non avendoli voi (SANT’AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos, 30, 2, 7 [PL 36, 243]). Per alcuni questo modo di fare sarebbe ingenuità. Essi sarebbero invece più "realisti" e più ragionevoli. Erigendo il pregiudizio a norma di giudizio, offendono chiunque prima ancora di averne ascoltato le ragioni. Poi, con "oggettività" e "benevolenza", concederanno forse all'offeso la possibilità di difendersi: il che va contro ogni morale e ogni diritto, perché, invece di assumersi l'onere di provare le pretese colpe, "concedono" all'innocente il "privilegio" di dimostrare la propria innocenza. Non sarei sincero se non vi confidassi che tutte queste considerazioni sono qualcosa di più di un'affrettata spigolatura dai trattati di diritto e di morale. Esse si fondano su un'esperienza che non pochi oggi soffrono nella propria carne, analogamente a quanto è accaduto a molti altri, che sono stati oggetto — spesso e per lunghi anni — di esercitazioni di tiro al bersaglio con mormorazioni, diffamazioni e calunnie. La grazia di Dio e un carattere alieno dal risentimento fanno sì che tutto questo non lasci in loro la minima traccia di amarezza. Mihi pro minimo est, ut a vobis iudicer (1 Cor 4, 3): a me importa ben poco essere giudicato da voi, potrebbero ripetere con san Paolo. A volte, per dirla nel linguaggio corrente, avranno aggiunto che tutto questo non faceva loro né caldo né freddo. Ed è la pura verità.

D'altra parte non posso negare che a me fa una gran pena l'anima di chi attacca ingiustamente la reputazione altrui, perché l'ingiusto aggressore rovina se stesso. E soffro anche per coloro che, di fronte ad accuse violente e arbitrarie, non sanno dove volgere gli occhi: rimangono sgomenti, non le credono possibili, e magari pensano che si tratti di un incubo.

Qualche giorno fa leggevamo nelle letture della Santa Messa il racconto di Susanna, la donna casta che venne ingiustamente accusata di disonestà da due corrotti anziani. Susanna, piangendo, esclamò: « Sono alle strette da ogni parte. Se cedo, è la morte per me; se rifiuto, non potrò scampare dalle vostre mani » (Dn 13, 22). Quante volte l'insidia degli invidiosi e degli intriganti mette delle persone oneste in questa stessa situazione! Le si pone di fronte a questa alternativa: offendere Dio oppure vedersi rovinata la reputazione. L'unica soluzione nobile e degna è, allo stesso tempo, estremamente dolorosa, dovendo prendere questa decisione: Meglio per me cadere innocente nelle vostre mani che peccare davanti al Signore (Dn 13, 23).

Torniamo all'episodio della guarigione del cieco. Gesù ha replicato ai suoi discepoli che quella disgrazia non è conseguenza del peccato, ma occasione perché si manifesti la potenza di Dio. E con meravigliosa semplicità decide che il cieco riacquisti la vista.

Comincia allora per quell'uomo, assieme alla gioia, la tribolazione. Non lo lasciano più in pace. I primi a cominciare sono i vicini e quelli che lo avevano visto chiedere l'elemosina (Gv 9, 8). Il Vangelo non dice che si rallegrarono, ma che invece stentavano a credergli, benché il cieco insistesse a ripetere che lui, che ora ci vedeva, era la stessa persona che prima non ci vedeva. Invece di lasciargli godere in pace la grazia ricevuta, lo trascinano dinanzi ai farisei, e quelli tornano a domandargli come sono andate le cose. Egli spiega per la seconda volta: Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ora ci vedo (Gv 9, 15).

I farisei vogliono allora dimostrare che quanto è avvenuto — che è una cosa buona e un grande miracolo — non è avvenuto. Alcuni di loro ricorrono a ragionamenti meschini, ipocriti, tutt'altro che equanimi: ha operato la guarigione in giorno di sabato, e poiché il sabato è proibito lavorare, non può aver fatto il miracolo. Altri avviano quella che oggi si chiamerebbe un'inchiesta. Vanno a trovare i genitori del cieco: È questo il vostro figlio, che voi dite esser nato cieco? Come mai ora ci vede? (Gv 9, 19). La paura dei potenti fa sì che quei poveri genitori diano una risposta che raccoglie tutte le garanzie del metodo scientifico: Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco; come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l'età, parlerà lui di se stesso (Gv 9, 20).

I promotori dell'inchiesta non ci possono credere, perché non ci vogliono credere. Chiamarono di nuovo l'uomo che era stato cieco e gli dissero: (…) Noi sappiamo che quest'uomo — Gesù Cristo — è un peccatore (Gv 9, 24).

In poche parole il testo di san Giovanni ci offre qui un tipico esempio di un tremendo attentato contro il diritto fondamentale, che per natura compete a tutti, di essere trattati con rispetto.

L'argomento continua a essere di attualità. Non costerebbe molto indicare, ai nostri giorni, esempi di questa curiosità aggressiva che porta a indagare morbosamente nella vita privata degli altri. Un minimo senso di giustizia esige che persino nell'investigazione di un presunto delitto si proceda con cautela e moderazione, senza prendere per sicuro ciò che è solo possibile. Si comprende chiaramente che la curiosità malsana, che porta a rovistare in ciò che non solo non costituisce un reato ma può essere addirittura un'azione meritoria, deve considerarsi una vera e propria perversione.

Di fronte ai negoziatori del sospetto, che dànno l'impressione di organizzare una "tratta dell'intimità", è doveroso difendere la dignità di ogni persona, il suo diritto al silenzio, a non replicare. E in questa difesa sono d'accordo tutte le persone oneste, cristiane o non cristiane, perché è in gioco un valore comune: la sacrosanta libertà di essere se stessi, di non esibirsi, di conservare un giusto e delicato riserbo circa le proprie gioie, i propri dolori e le pene di famiglia; e soprattutto la libertà di fare il bene senza ostentazione, di aiutare i bisognosi per puro amore, senza vedersi obbligati a pubblicizzare queste opere di servizio agli altri e tanto meno a offrire l'intimità della propria anima agli sguardi indiscreti e obliqui di persone che della vita spirituale non sanno niente e non vogliono saperne niente, se non per prendersene gioco empiamente.

Ma com'è difficile sentirsi liberi da questa aggressività pettegola! I metodi per non lasciar tranquillo nessuno si sono moltiplicati. Mi riferisco ai mezzi tecnici e anche a quelle diffuse argomentazioni a cui è difficile opporsi se si vuole conservare la buona fama. Per esempio, si parte spesso dal presupposto che tutti si comportino male, e allora, grazie a questo ragionamento assurdo, sembra inevitabile il "meaculpismo", l'autocritica. Se uno non si butta addosso una tonnellata di fango, pensano che non solo è un perfetto mascalzone, ma anche un ipocrita e un presuntuoso.

In altre occasioni il procedimento è diverso. Chi parla o scrive calunniando è disposto ad ammettere che siete persone perbene, ma aggiunge che altri forse non la penseranno allo stesso modo e potrebbero pubblicare che siete dei ladri: come dimostrate che non siete dei ladri? Oppure: lei ha sempre detto che la sua condotta è pulita, nobile, retta; le dispiacerebbe considerarla di nuovo per vedere se non è invece sporca, ignobile e falsa?

Non sono esempi immaginari. Sono convinto che qualsiasi persona o qualsiasi istituzione un po' conosciuta potrebbe aggiungerne altri simili. Si è creata in alcuni ambienti la falsa persuasione che il pubblico, il popolo, o comunque lo si voglia chiamare, abbia il diritto di conoscere e interpretare i particolari più intimi della vita degli altri.

Permettetemi un accenno a una cosa che è profondamente unita alla mia anima. Da oltre trent'anni ho detto e scritto in mille modi che l'Opus Dei non ha nessun fine temporale, politico, ma cerca soltanto ed esclusivamente di diffondere tra le genti di ogni razza, di ogni condizione sociale e di ogni paese la conoscenza e la pratica della dottrina di salvezza portata da Cristo; cerca soltanto di contribuire a far sì che vi sia più amore di Dio sulla terra, e quindi più pace, più giustizia tra gli uomini, figli di un solo Padre.

Molte migliaia di persone — milioni — hanno capito questo in tutto il mondo. Altri, piuttosto pochi, sembra che non lo abbiano capito, per i motivi che siano. Se il mio cuore è più vicino ai primi, tuttavia rispetto e amo anche i secondi, perché in tutti è da rispettare e stimare la dignità personale e tutti sono chiamati alla gloria dei figli di Dio.

Ma non manca mai una minoranza settaria che, non comprendendo ciò che io e tanti altri amiamo, vorrebbe che glielo spiegassimo d'accordo con la loro mentalità, che è esclusivamente politica, estranea a ogni dimensione soprannaturale, attenta unicamente a equilibri di interessi e di pressioni di gruppi.

Se non ricevono una spiegazione così, falsa e accomodata ai loro gusti, continuano a pensare che ci siano menzogna, occultamento e piani sinistri.

Lasciate che vi dica che di fronte a questi casi non mi affiggo né mi preoccupo. Direi anzi che mi diverto, se non fosse che non posso passar sopra al fatto che offendono il prossimo e commettono un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio. Io sono aragonese e anche per naturale disposizione di carattere amo la sincerità, per cui provo una repulsione istintiva per tutto ciò che sa di raggiro. Ho sempre cercato di rispondere con la verità, senza iattanza e senza orgoglio, anche quando i calunniatori erano maleducati, arroganti, prevenuti e privi del più piccolo segno di umanità.

Mi è venuta alla mente più volte la risposta del cieco nato ai farisei che domandavano per l'ennesima volta com'era avvenuto il miracolo: Ve l'ho già detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli? (Gv 9, 27).

Il peccato dei farisei non consisteva nel non vedere Dio in Cristo, bensì nel chiudersi volontariamente in se stessi, perché non tolleravano che Gesù, che è la luce, aprisse loro gli occhi (cfr Gv 9, 34-41). Questa cecità ha un'influenza immediata nei rapporti con i nostri simili. Il fariseo che credendosi luce non permette a Dio di aprirgli gli occhi è lo stesso che tratta con superbia e ingiustamente il prossimo: Io ti ringrazio di non essere come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri; e nemmeno come questo publicano (Lc 18, 11). Così prega. E al cieco nato, che persiste nel raccontare la verità della guarigione miracolosa, vengono rivolti questi insulti: Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi? E lo cacciarono fuori (Gv 9, 34).

Tra quelli che non conoscono Cristo ci sono molti galantuomini che, per elementare riguardo, sanno comportarsi con delicatezza e sono sinceri, cordiali, educati. Se loro e noi lasciamo che Cristo guarisca quel resto di cecità che ancora ci offusca gli occhi, se permettiamo al Signore di applicarci quel fango che nelle sue mani diventa un incomparabile collirio, allora noi potremo vedere le realtà terrene e intravedere le realtà eterne con una luce nuova, con la luce della fede: avremo acquistato uno sguardo puro.

Questa è la vocazione del cristiano: la pienezza della carità che è paziente, è benigna; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera. tutto sopporta (1 Cor 13, 4-7).

La carità di Cristo non è soltanto un buon sentimento verso il prossimo, non si limita al piacere della filantropia. La carità infusa da Dio nell'anima trasforma dal di dentro l'intelligenza e la volontà, fonda soprannaturalmente l'amicizia e la gioia di compiere il bene.

Contemplate l'episodio della guarigione dello storpio, tramandatoci dagli Atti degli Apostoli. Pietro e Giovanni salivano al tempio e, all'entrare, si imbattono in un uomo seduto accanto alla porta; quest'uomo era storpio fin dalla nascita. La scena ricorda quella della guarigione del cieco. Ma in questa occasione i discepoli non pensano che la disgrazia sia dovuta ai peccati personali dell'infermo o a quelli dei suoi genitori. Invece gli dicono: Nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina (At 3, 6). Prima erano pieni d'incomprensione, adesso di misericordia; prima giudicavano temerariamente, adesso guariscono miracolosamente nel nome del Signore. È sempre Gesù che passa! È Cristo che continua a passare per le strade e le piazze del mondo nella persona dei suoi discepoli, i cristiani: io gli chiedo ardentemente di passare attraverso l'anima di qualcuno di coloro che in questo momento mi ascoltano.

All'inizio ci sorprendeva l'atteggiamento dei discepoli di Gesù di fronte al cieco nato. Si regolavano su quel disgraziato proverbio: a pensar male non si sbaglia mai. Dopo, quando conoscono meglio il Maestro, quando si rendono conto di ciò che significa essere cristiani, le loro opinioni si ispirano alla comprensione.

In qualsiasi uomo — scrive san Tommaso d'Aquino — esiste qualche aspetto per il quale gli altri possono considerarlo come superiore a loro, come dice l'Apostolo: « Mossi dall'umiltà, considerate gli altri superiori a voi »(Fil 2, 3). D'accordo con questo, tutti gli uomini devono rendersi reciprocamente onore (SAN TOMMASO D’AQUINO, S. Th., II-II, q. 103, a. 2-3). Con la virtù dell'umiltà scopriamo che le manifestazioni di rispetto alla persona — al suo onore, alla sua buona fede, alla sua intimità — non sono formalità convenzionali, ma le prime manifestazioni della carità e della giustizia.

La carità cristiana non si limita a dare un soccorso economico ai bisognosi, ma si impegna anzitutto a rispettare e a comprendere ogni persona come tale, nella sua intrinseca dignità di uomo e di figlio del Creatore. Pertanto gli attentati alla dignità della persona, alla sua reputazione, al suo onore, stanno a dimostrare che chi li commette non conosce o non pratica alcune verità della nostra fede cristiana. E che comunque non ha un vero amore di Dio. La carità con cui amiamo Dio e quella con cui amiamo il prossimo sono una sola virtù, perché la ragione di amare il prossimo è appunto Dio, e quando amiamo il prossimo con carità amiamo Dio (SAN TOMMASO D’AQUINO, S. Th., II-II, q. 103, a. 2-3).

Spero che saremo capaci di trarre delle conseguenze precise da questo nostro momento di conversazione alla presenza del Signore. Anzitutto, il proposito di non giudicare gli altri, di non offendere nemmeno con il dubbio, di annegare il male nella sovrabbondanza del bene, diffondendo intorno a noi la convivenza leale, la giustizia e la pace.

E poi la decisione di non rattristarci mai se la nostra condotta retta è capita male da altri; se il bene che cerchiamo di realizzare con l'aiuto continuo del Signore è interpretato in modo distorto; se qualcuno, con un ingiusto processo alle intenzioni, ci attribuisce propositi malvagi, procedimenti dolosi e simulazione. Perdoniamo sempre, col sorriso sulle labbra. Parliamo chiaramente e senza rancore, se in coscienza riteniamo di dover parlare. E lasciamo tutto nelle mani di Dio nostro Padre, con un silenzio divino — Iesus autem tacebat (Mt 26, 63), Gesù rimaneva in silenzio — se si tratta di offese personali, per brutali e indecorose che siano. Preoccupiamoci solo di fare opere buone: sarà Lui a farle risplendere davanti agli uomini (Mt 5, 16).

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