La conversione dei figli di Dio

Siamo entrati nel tempo di Quaresima, tempo di penitenza, di purificazione, di conversione. Non è un compito facile. Il cristianesimo non è un cammino comodo: non basta "stare" nella Chiesa e far passare gli anni. Nella nostra vita, vita di cristiani, la prima conversione — quel momento irripetibile, indimenticabile, in cui si vede con tanta chiarezza tutto ciò che il Signore ci chiede — è importante; però ancora più importanti e difficili sono le conversioni successive. Per agevolare l'opera della grazia divina che si manifesta in esse, occorre conservare un animo giovane, invocare il Signore, ascoltarlo, scoprire ciò che in noi non va, chiedere perdono.

Invocabit me et ego exaudiam eum, se mi invocherete vi ascolterò, dice il Signore(Sal 90, 15 [introito della Messa]). Considerate quanto è meravigliosa la sollecitudine di Dio verso di noi; è sempre disposto ad ascoltarci, sempre attento alla parola dell'uomo. In ogni tempo — ma ora in modo speciale, perché il nostro cuore è ben disposto, deciso a purificarsi — Egli ci ascolta e non sarà sordo alle richieste di un cuore contrito e umiliato (Sal 50, 19).

Il Signore ci ascolta per intervenire, per entrare nella nostra vita, liberarci dal male, colmarci di bene: Eripiam eum et glorificabo eum (Sal 90, 15 [introito della Messa]), ci libererà e ci glorificherà. Ecco la speranza della gloria: ritroviamo qui, come già in altre occasioni, l'inizio di quell'intimo movimento che è la vita spirituale. La speranza di questa glorificazione accresce la nostra fede e stimola la nostra carità. In tal modo le tre virtù teologali, virtù divine che ci fanno simili a Dio nostro Padre, diventano operanti.

Quale miglior modo di cominciare la Quaresima? Il rinnovamento della fede, della speranza e della carità è la fonte dello spirito di penitenza, che è desiderio di purificazione. La Quaresima non è solo un'occasione per intensificare le nostre pratiche esteriori di mortificazione: se pensassimo che è solo questo, ci sfuggirebbe il suo significato più profondo per la vita cristiana, perché quegli atti esterni — vi ripeto — sono frutto della fede, della speranza, dell'amore.

Qui habitat in adiutorio Altissimi, in protectione Dei coeli commorabitur (Sal 90, 1), abitare sotto la protezione di Dio, vivere con Dio: in questo consiste la rischiosa sicurezza del cristiano. Bisogna persuadersi che Dio ci ascolta, che è accanto a noi: e il nostro cuore si riempirà di pace. Ma vivere con Dio è indubbiamente un rischio, perché il Signore non si accontenta di condividere: chiede tutto. E avvicinarsi un po' di più a Lui vuol dire essere disposti a una nuova conversione, a una nuova rettificazione, ad ascoltare più attentamente le sue ispirazioni, i santi desideri che egli fa sbocciare nella nostra anima, e a metterli in pratica.

Certo, dai tempi della nostra prima decisione cosciente di vivere integramente la dottrina di Cristo, abbiamo fatto molti passi sulla strada della fedeltà alla sua Parola. Eppure, non è vero che restano ancora tante cose da fare? Non è vero che resta, soprattutto, tanta superbia? C'è indubbiamente bisogno di un nuovo cambiamento, di una lealtà più piena, di un'umiltà più profonda, affinché diminuisca il nostro egoismo e Cristo cresca in noi; infatti, illum oportet crescere, me autem minui (Gv 3, 30), bisogna che Egli cresca e che io diminuisca.

Non si può rimanere inerti. È necessario avanzare verso la meta indicata da san Paolo: Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2, 20). L'ambizione è grande e nobile: è l'identificazione con Cristo, la santità. D'altronde non c'è altra strada se si desidera essere coerenti con la vita divina che Dio stesso, mediante il battesimo, ha fatto nascere nelle nostre anime. Andare avanti significa progredire in santità; si retrocede, invece, se si rinuncia allo sviluppo della vita cristiana. Il fuoco dell'amore di Dio ha bisogno di essere alimentato, di crescere ogni giorno, di gettare profonde radici nell'anima; e il fuoco si mantiene vivo a condizione di bruciare cose sempre nuove. Se non avvampa, rischia di estinguersi.

Ricordate le parole di Sant'Agostino: Se dici basta, sei perduto. Guarda sempre avanti, cammina sempre, avanza sempre. Non restare allo stesso posto, non retrocedere, non sbagliare strada (SANT’AGOSTINO, Sermo 169, 15 [PL 38, 926]).

La Quaresima ci pone davanti a degli interrogativi fondamentali: cresce la mia fedeltà a Cristo, il mio desiderio di santità? Cresce la generosità apostolica nella mia vita di ogni giorno, nel mio lavoro ordinario, fra i miei colleghi? Ognuno risponda silenziosamente, in cuor suo, a queste domande e scoprirà che è necessaria una nuova trasformazione perché Cristo viva in noi, perché la sua immagine si rifletta limpidamente nella nostra condotta.

Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua (Lc 9, 23). È Cristo che ce lo ripete di nuovo, sottovoce, intimamente: la Croce ogni giorno. Non è solo — scrive san Gerolamo — intempo di persecuzione e sotto la costrizione del martirio che dobbiamo rinnegare noi stessi quali eravamo in passato, ma in ogni attimo della nostra vita, nelle opere, nei pensieri e nelle parole; e dobbiamo far vedere che siamo degli esseri effettivamente rinati in Cristo (SAN GEROLAMO, Ep 121, 3 [PL 22, 1013]).

Queste considerazioni non sono, in realtà, altro che l'eco di quelle dell'Apostolo: Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore (Ef 5, 8-10).

La conversione è cosa di un istante; la santificazione è opera di tutta la vita. Il seme divino della carità, che Dio ha posto nelle nostre anime, aspira a crescere, a manifestarsi in opere e a produrre frutti che in ogni momento corrispondano ai desideri del Signore. È indispensabile quindi essere disposti a ricominciare, a ritrovare, nelle nuove situazioni della nostra vita, la luce e l'impulso della prima conversione. E questa è la ragione per cui dobbiamo prepararci con un approfondito esame di coscienza, chiedendo aiuto al Signore, per poterlo conoscere meglio e per conoscere meglio noi stessi. Se vogliamo convertirci di nuovo, questa è l'unica strada.

Exhortamur ne in vacuum gratiam Dei recipiatis (2 Cor 6, 1 [epistola della Messa]), vi esortiamo a non ricevere invano la grazia di Dio. La grazia divina potrà colmare la nostra anima in questa Quaresima, purché non chiudiamo le porte del cuore. Dobbiamo avere buone disposizioni, il desiderio di trasformarci veramente, di non giocare con la grazia di Dio.

Non mi piace parlare di timore, perché ciò che muove il cristiano è l'amore di Dio che è stato manifestato in Cristo e che ci insegna ad amare tutti gli uomini e l'intera creazione; dobbiamo però parlare di responsabilità, di serietà. Non vi fate illusioni — ci avverte l'Apostolo — , non ci si può prendere gioco di Dio (Gal 6, 7).

Bisogna decidersi. Non si può vivere con quelle due candele che, secondo il detto popolare, ogni uomo tiene accese: una a san Michele e una al demonio. Bisogna spegnere la candela del demonio. Dobbiamo consumare la nostra vita facendola ardere tutta intera al servizio di Dio. Se il nostro desiderio di santità è sincero e docilmente ci mettiamo nelle mani di Dio, tutto andrà bene. Perché Dio è sempre disposto a darci la sua grazia e, specialmente in questo tempo, la grazia per una nuova conversione, per un miglioramento della nostra vita di cristiani.

Non possiamo considerare la Quaresima come un periodo qualsiasi, una ripetizione ciclica dell'anno liturgico. È un momento unico; è un aiuto divino che bisogna accogliere. Gesù passa accanto a noi e attende da noi — oggi, ora — un rinnovamento profondo.

Ecce nunc tempus accettabile, ecce nunc dies salutis (2 Cor 6, 2 [epistola della Messa]): è il tempo propizio, l'occasione della salvezza. Si sente di nuovo il richiamo del Buon Pastore, la sua voce affettuosa: Ego vocavi te nomine tuo (Is 43, 1). Ci chiama per nome, a uno a uno, con l'appellativo famigliare con cui ci chiamano le persone che ci amano. La tenerezza di Gesù è inesprimibile.

Considerate con me quanto è meraviglioso l'amore di Dio: il Signore ci viene incontro, ci aspetta, attende lungo la strada in modo che non possiamo fare a meno di vederlo. E ci chiama personalmente, parlandoci delle nostre cose, che sono anche le sue: muove la nostra coscienza al pentimento, l'apre alla generosità e imprime nelle nostre anime il desiderio di essere fedeli e poterci chiamare suoi discepoli. Ci basta percepire queste intime parole della grazia, che suonano come un rimprovero sempre affettuoso, per renderci conto che Egli non ci ha dimenticati in tutto il tempo in cui noi, per nostra colpa, non ci siamo accorti di Lui. Cristo ci ama con l'amore infinito del suo Cuore divino.

Guardate come insiste: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso (2 Cor 6, 2 [epistola della Messa]). Ti promette la gloria, il suo amore; te li dà al momento opportuno e ti chiama. E tu, che cosa dai al Signore? Come risponderai? Come risponderò io stesso all'amore di Gesù che passa accanto a noi?

Ecce nunc dies salutis, ecco, oggi è il giorno della salvezza. L'appello del Buon Pastore giunge sino a noi: Ego vocavi te nomine tuo, ho chiamato te, per nome. Bisogna rispondere — amore con amor si paga — dicendo: Ecce ego, quia vocasti me (1 Sam 3, 5), mi hai chiamato, eccomi: sono deciso a non fare che il tempo di Quaresima passi come l'acqua sui sassi, senza lasciare traccia; mi lascerò penetrare, trasformare; mi convertirò, mi rivolgerò di nuovo al Signore, amandolo come Egli vuole essere amato.

Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente (Mt 22, 37). Che cosa resta del tuo cuore — commenta sant'Agostino — perché tu possa amare te stesso? Che cosa resta della tua anima e della tua mente? "Ex toto, Egli dice, con tutto". Totum exigit te, qui fecit te (SANT’AGOSTINO, Sermo 34, 4, 7 [PL 38, 212]), Colui che ti fece, ti vuole tutto.

Dopo questa professione d'amore, bisogna comportarsi come veri innamorati di Dio. In omnibus exhibeamus nosmetipsos sicut Dei ministros (2 Cor 6, 4 [epistola della Messa]), comportiamoci in ogni occasione come servitori del Signore. Se ti dai a Lui come Lui vuole, l'azione divina si manifesterà nella tua condotta professionale, nel lavoro, nell'impegno per rendere divine le cose umane, grandi o piccole che siano, perché mediante l'amore tutte acquistano una nuova dimensione.

Ma in questa Quaresima non possiamo dimenticare che voler essere servitori di Dio non è facile. Il testo di san Paolo propostoci dalla Messa di oggi ce ne ricorda le difficoltà: Come ministri di Dio — scrive l'Apostolo — con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio (2 Cor 6, 4-7).

Nei momenti più diversi della vita, in tutte le situazioni, dobbiamo comportarci come servitori di Dio, sapendo che il Signore è con noi, e noi siamo suoi figli. Bisogna essere consapevoli della radice divina della nostra vita e agire in conseguenza.

Le parole dell'Apostolo devono riempirvi di gioia, perché sono la canonizzazione della vostra vocazione, quella di cristiani comuni, di coloro che vivono in mezzo al mondo condividendo con gli altri uomini, loro uguali, affanni, fatiche e gioie. Tutto questo è un cammino divino. Ciò che il Signore vi chiede è di agire, in ogni momento, come suoi figli e servitori.

Non dimentichiamo però che le circostanze ordinarie della vita sono cammino divino se veramente ci convertiamo e ci doniamo. Perché il linguaggio di san Paolo è duro: promette al cristiano una vita difficile, rischiosa, in perpetua tensione. Come è stato sfigurato il cristianesimo quando se ne è voluto fare una via comoda! Ma sfigura la verità anche chi pensasse che questa vita profonda e seria, che conosce vivamente tutti gli ostacoli dell'esistenza umana, sia una vita angosciata, fatta di oppressione e di paura.

Il cristiano è realista, di un realismo soprannaturale e umano che avverte tutte le sfaccettature della vita: il dolore e la gioia, la sofferenza propria e altrui, la sicurezza e il dubbio, la generosità e la tendenza dell'egoismo. Il cristiano conosce tutto e affronta tutto, ricco di maturità umana e della fortezza che riceve da Dio.

La Quaresima commemora i quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto, in preparazione agli anni di predicazione che culminarono nella Croce e nella gloria della Pasqua. Quaranta giorni di preghiera e di penitenza. Al loro termine, avviene l'episodio che la liturgia di oggi offre alla nostra considerazione nel Vangelo della Messa: le tentazioni di Gesù (cfr Mt 4, 1-11). Un episodio pieno di mistero, che l'uomo cerca invano di capire — Dio che si sottomette alla tentazione, che lascia agire il Maligno — ma che può essere meditato chiedendo al Signore che ci faccia comprendere l'insegnamento che vi è contenuto.

Gesù tentato. La tradizione spiega questa scena considerando che Nostro Signore, per darci esempio in tutto, volle subire anche la tentazione. E infatti è così, perché Gesù fu perfetto uomo, uguale a noi in tutto, meno che nel peccato (cfr Eb 4, 15). Dopo i quaranta giorni di digiuno, mangiando solo — forse — erba e radici e bevendo un po' d'acqua, Gesù sente fame: fame vera, come quella di qualsiasi creatura. E quando il diavolo gli propone di cambiare in pane le pietre, Nostro Signore non solo rifiuta l'alimento che il suo corpo reclama, ma allontana da sé un incitamento più grave, quello di usare del suo potere divino per risolvere, se così si può dire, un problema personale.

Lo avrete notato voi stessi leggendo il Vangelo: Gesù non fa miracoli in favore di se stesso. Cambia l'acqua in vino per gli sposi di Cana (cfr Gv 2, 1-11) e moltiplica i pani e i pesci per sfamare la folla (cfr Mc 6, 33-46): ma Lui si guadagna il pane, per lunghi anni, col suo lavoro. E più tardi, pellegrino per le contrade di Israele, vive dell'aiuto di quelli che lo seguono (cfr Mt 27, 55).

Racconta san Giovanni che, dopo un lungo viaggio, giunto al pozzo di Sicar, Gesù manda i suoi discepoli al paese vicino a cercare provviste; ed Egli vedendo avvicinarsi una samaritana, chiede dell'acqua, poiché non ha di che procurarsene (cfr Gv 4, 4 ss.). Il suo corpo, affaticato dal lungo cammino, sperimenta la stanchezza e la sete. In altre occasioni, per riacquistare le forze, si abbandona al sonno (cfr Lc 8, 23): generosità del Signore che si umilia, che accetta in pieno la condizione umana, che non si serve del suo potere divino per sfuggire alle difficoltà o allo sforzo; che ci insegna a essere forti, ad amare il lavoro, ad apprezzare la nobiltà umana e divina di assaporare le conseguenze del dono di sé.

Nella seconda tentazione, quando il diavolo gli propone di gettarsi dall'alto del Tempio, Gesù rifiuta di nuovo di servirsi del suo potere divino. Egli non cerca la vanagloria, lo spettacolo, la commedia umana di chi pretende servirsi di Dio come scenario della propria eccellenza. Gesù vuole compiere la volontà del Padre senza affrettare i tempi né anticipare l'ora dei miracoli; vuole percorrere passo per passo il faticoso sentiero degli uomini, l'amabile cammino della Croce.

Qualcosa di simile accade nella terza tentazione: gli vengono offerti regni, potere, gloria. Il demonio pretende di estendere agli oggetti delle ambizioni umane l'adorazione che è dovuta solo a Dio: promette una vita facile a chi si prostra davanti a lui, davanti agli idoli. Nostro Signore riporta l'adorazione al suo unico e vero fine, a Dio, e riafferma la sua volontà di servizio: Allontànati da me, Satana, perché sta scritto: adorerai il Signore Dio tuo e a lui solo servirai (Mt 4, 10).

Impariamo da Gesù. Nella sua vita terrena non ha voluto la gloria che gli spettava: pur avendo diritto a essere trattato come Dio, assunse le sembianze di servo, di schiavo (cfr Fil 2, 6-7). Il cristiano impara così che tutta la gloria è per Iddio, e che non può servirsi della grandezza sublime del Vangelo come strumento di ambizioni e di interessi umani.

Impariamo da Gesù. Il suo atteggiamento nell'opporsi a ogni gloria umana è in perfetta correlazione con la grandezza incomparabile della sua missione: quella del Figlio amatissimo di Dio che si incarna per la salvezza degli uomini. Una missione che l'amore del Padre ha circondato di una sollecitudine piena di tenerezza: Filius meus es tu, ego hodie genui te. Postula a me et dabo tibi gentes hereditatem tuam (Sal 2, 7-8): tu sei mio figlio, oggi ti ho generato. Chiedi, e ti darò le genti in eredità.

Il cristiano che, seguendo Cristo, vive in atteggiamento di piena adorazione del Padre, riceve anche lui dal Signore parole di amorosa sollecitudine: Lo salverò, perché a me si è affidato; lo esalterò, perché ha conosciuto il mio nome (Sal 90, 14 [tratto della Messa]).

Gesù ha detto di no al demonio, al principe delle tenebre. E subito si manifesta la luce: Allora il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano (Mt 4, 11). Gesù ha superato la prova; una vera prova, commenta sant'Ambrogio, perché Egli non agì come Dio, usandone il potere — altrimenti, a che ci sarebbe servito il suo esempio? — ma come uomo, servendosi dei mezzi che aveva in comune con noi (SANT’AMBROGIO, Expositio Ev. sec. Lucam 1, 4, 20 [PL 15, 1525]).

Il demonio ha citato con perfidia l'Antico Testamento: Dio darà ordine ai suoi angeli di custodire il giusto in tutti i suoi passi (cfr Sal 90, 11 [tratto della Messa]). Ma Gesù, rifiutandosi di tentare il Padre, restituisce al passo biblico il suo vero significato e infatti, al momento opportuno, come conseguenza della sua fedeltà, vengono i messaggeri di Dio Padre a servirlo.

La tattica usata da Satana con Gesù Nostro Signore merita d'essere considerata: si serve di passi dei libri sacri, ma ne sfigura il senso in modo blasfemo. Gesù non si lascia ingannare: il Verbo fatto carne conosce bene la Parola divina, scritta per la salvezza degli uomini e non per loro confusione e condanna. Ne possiamo dedurre che chi è unito a Gesù con l'amore non si lascerà mai ingannare da fraudolente interpretazioni della Scrittura, perché sa che è tipica opera del diavolo cercare di confondere la coscienza cristiana adoperando dolosamente le parole della Sapienza eterna per trasformare la luce in tenebre.

Soffermiamoci a contemplare l'intervento degli angeli nella vita di Gesù per capire meglio il loro compito — la missione angelica — nella vita umana. La tradizione cristiana descrive l'Angelo Custode come un grande amico che Dio ha messo accanto a ogni uomo per accompagnarlo nel suo cammino. E per questo ci invita a conoscerlo, a rivolgerci a lui.

La Chiesa, facendoci meditare questi passi della vita di Gesù, ci ricorda che nel tempo di Quaresima — tempo in cui ci riconosciamo peccatori, pieni di miserie, bisognosi di purificazione — c'è posto anche per la gioia. Perché la Quaresima è anche tempo di fortezza e di gaudio. Dobbiamo sentirci pieni di coraggio, perché la grazia del Signore non può mancare: Dio sarà sempre accanto a noi e manderà i suoi angeli perché siano i nostri compagni di viaggio, i nostri prudenti consiglieri lungo la via, i collaboratori in tutte le nostre imprese. In manibus suis portabunt te, ne forte offendas ad lapidem pedem tuum (Sal 90, 12 [tratto della Messa]); gli angeli ti terranno per mano, affinché il tuo piede non inciampi nei sassi.

Dobbiamo imparare a trattare gli angeli. Rivolgiamoci a loro in questo momento. Parla al tuo Angelo Custode e digli che le acque soprannaturali della Quaresima non stanno passando invano sulla tua anima, ma penetrano in profondità, perché il tuo cuore è contrito. Chiedigli di presentare al Signore quella buona volontà che la grazia fa germogliare dalla tua miseria come un giglio che fiorisce nel letame. Sancti Angeli, custodes nostri, defendite nos in proelio, ut non pereamus in tremendo iudicio (da una preghiera a San Michele, nelle sue feste liturgiche): santi Angeli Custodi, difendeteci nella battaglia, affinché non sia decretata la nostra morte nel tremendo giudizio.

Come si spiega questa preghiera fiduciosa, questa sicurezza di essere protetti nella battaglia? È una convinzione che si basa su una realtà che non mi stancherò mai di ammirare: la nostra filiazione divina. Il Signore, che in questa Quaresima ci chiede di convertirci, non è un dominatore tirannico né un giudice rigido e implacabile: è nostro Padre. Ci parla dei nostri peccati, dei nostri errori, della nostra mancanza di generosità; ma lo fa per liberarci da tutto questo e offrirci la sua amicizia e il suo amore. La consapevolezza della nostra filiazione divina riempie di gioia la nostra conversione: ci dice che stiamo tornando alla casa del Padre.

La filiazione divina è il fondamento dello spirito dell'Opus Dei. Tutti gli uomini sono figli di Dio. Ma un figlio si può comportare con suo padre in diverse maniere. Bisogna rendersi conto che il Signore, volendoci suoi figli, ci ha ammessi a vivere nella sua casa, in mezzo al mondo: ha voluto che fossimo della sua famiglia, che tutte le cose sue fossero nostre e le nostre sue, che lo trattassimo con tanta familiarità e fiducia da chiedergli, come fa il bambino, la luna!

Un figlio di Dio tratta il Signore come Padre. Non con ossequio servile né con riverenza formale, ma con sincerità e fiducia.

Dio non si scandalizza degli uomini, non si stanca delle nostre infedeltà. Il Padre del Cielo perdona qualsiasi offesa, quando il figlio torna a Lui, quando si pente e chiede perdono. Anzi, il Signore è a tal punto Padre da prevenire il nostro desiderio di perdono: è Lui a farsi avanti aprendoci le braccia con la sua grazia.

Non vi dico cose di mia invenzione. Basta ricordare la parabola che il Figlio di Dio ci ha narrato per farci capire l'amore del Padre che è nei Cieli: la parabola del figliol prodigo (cfr Lc 15, 11 ss.).

Quando era ancora lontano — dice la Scrittura —, suo padre lo vide e si commosse profondamente; gli corse incontro, gli gettò le braccia al collo e lo coprì di baci (Lc 15, 20). Le parole del testo sacro sono proprio queste: lo coprì di baci. Si può parlare in maniera più umana? Si può descrivere con maggior evidenza l'amore paterno di Dio per gli uomini? Davanti a Dio che muove incontro a noi, non possiamo che esclamare, con san Paolo, Abba, Pater! (Rm 8, 15), Padre, Padre mio! Pur essendo il creatore dell'universo, non esige titoli altisonanti né si cura del giusto riconoscimento del suo potere. Vuole che lo chiamiamo Padre e che, assaporando questa parola, l'anima ci si riempia di gioia.

La vita umana, in un certo modo, è un continuo ritorno alla casa del Padre. Ritorno mediante la contrizione, la conversione del cuore, che presuppone il desiderio di cambiare, la decisione ferma di migliorare la nostra vita, e si manifesta pertanto in opere di sacrificio e di dedizione. Ritorno alla casa del Padre per mezzo del Sacramento del perdono, nel quale, confessando i nostri peccati, ci rivestiamo di Cristo e ridiventiamo suoi fratelli e membri della famiglia di Dio.

Dio ci aspetta, come il padre della parabola, con le braccia aperte, benché non lo meritiamo. Non gli importa l'entità del nostro debito. Come nel caso del figliol prodigo, dobbiamo solo aprire il cuore, sentire la nostalgia del focolare paterno, meravigliarci e rallegrarci di fronte al dono divino di poterci chiamare e di essere — nonostante tante mancanze di corrispondenza — veramente figli di Dio.

Che strana capacità ha l'uomo di dimenticare le cose più meravigliose, di abituarsi al mistero! Ricordiamo ancora una volta, in questa Quaresima, che il cristiano non può essere superficiale. Pienamente inserito nel suo lavoro ordinario, in mezzo agli altri uomini — a cui è uguale in tutto — attivo, impegnato, in tensione, il cristiano deve, nello stesso tempo, essere pienamente in Dio, perché ne è figlio.

La filiazione divina è una verità lieta, un mistero di consolazione. Riempie tutta la nostra vita spirituale perché ci insegna a trattare, conoscere, amare il nostro Padre del Cielo, e colma di speranza la nostra lotta interiore, dandoci la semplicità fiduciosa propria dei figli più piccoli. Più ancora: dal momento che siamo figli di Dio, questa realtà ci porta anche a contemplare con amore e ammirazione tutte le cose che sono uscite dalle mani di Dio, Padre e Creatore. E in tal modo siamo contemplativi in mezzo al mondo, amando il mondo.

Nella Quaresima, la liturgia ha presenti le conseguenze del peccato di Adamo nella vita dell'uomo. Adamo non volle essere un buon figlio di Dio e si ribellò. Ma già risuona incessante l'eco del felix culpa — felice colpa — che la Chiesa intera, piena di gioia, canterà nella veglia di Pasqua (preconio pasquale).

Dio Padre, giunta la pienezza dei tempi, inviò al mondo il suo Figlio Unigenito perché ristabilisse la pace; perché, redenti dal peccato, adoptionem filiorum reciperemus (Gal 4, 5), fossimo costituiti figli di Dio, liberati dal giogo della schiavitù, resi capaci di partecipare all'intimità della Trinità divina. E così è stata data all'uomo nuovo, al nuovo innesto dei figli di Dio (cfr Rm 6, 4-5), la possibilità di riscattare la creazione intera dal disordine, restaurando tutte le cose in Cristo (cfr Ef 1, 5-10), in Colui che le ha riconciliate con Dio (cfr Col 1, 20).

Tempo di penitenza, quindi. Ma la penitenza, lo abbiamo già visto, non è un compito negativo. La Quaresima va vissuta in quello spirito di filiazione che Cristo ci ha comunicato e che palpita nella nostra anima (cfr Gal 4, 6). Il Signore ci chiama ad avvicinarci a Lui con il desiderio di essere come Lui: Fatevi imitatori di Dio, quali figli suoi carissimi (Ef 5, 1), collaborando umilmente ma con fervore al divino proposito di unire ciò che è diviso, di salvare ciò che è perduto, di ordinare ciò che il peccato dell'uomo ha sconvolto, di ricondurre al suo fine ciò che se ne è allontanato, di ristabilire la divina concordia di tutto il creato.

La liturgia della Quaresima assume a volte toni drammatici, conseguenza della meditazione su ciò che significa per l'uomo allontanarsi da Dio. Ma non è questa l'ultima parola. L'ultima parola la dice Dio, ed è la parola del suo amore salvifico e misericordioso e, pertanto, la parola che dichiara la nostra filiazione divina. Per questo vi ripeto oggi con san Giovanni: Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! (1 Gv 3, 1). Figli di Dio, fratelli del Verbo fatto carne, di colui di cui fu detto: In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini (Gv 1, 4). Figli della luce, dunque, e fratelli della luce; portatori dell'unica fiamma capace di accendere i cuori degli uomini.

Mentre, fra poco, la Santa Messa proseguirà, ciascuno di voi dovrà considerare che cosa gli chiede il Signore, quali propositi, quali decisioni vuole promuovere in Lui l'azione della grazia. Costatando dentro di voi queste esigenze soprannaturali e umane di donazione e di lotta, non dimenticate che Gesù Cristo è il nostro modello. E ricordate anche che Gesù, che è Dio, permise che fosse tentato, affinché ci riempissimo di coraggio e fossimo certi della vittoria. Egli infatti non perde battaglie, e noi, uniti a Lui, non saremo mai vinti, e potremo chiamarci ed essere veramente vincitori: buoni figli di Dio.

Cerchiamo di vivere contenti. Io sono contento. Non dovrei esserlo se guardo la mia vita e faccio quell'esame personale di coscienza che il tempo liturgico di Quaresima ci richiede. Eppure sono contento perché vedo che il Signore mi cerca ancora una volta, che il Signore continua a essere mio Padre. So che tutti noi, forti dello splendore e dell'aiuto della grazia, sapremo vedere con decisione che cosa bisogna bruciare, e la bruceremo; che cosa bisogna strappare, e la strapperemo; che cosa bisogna donare, e la doneremo.

Il lavoro non è facile, ma abbiamo una guida chiara, una realtà da cui non possiamo né dobbiamo prescindere: siamo amati da Dio. Lasceremo dunque che lo Spirito Santo agisca in noi e ci purifichi, e così abbracceremo il Figlio di Dio crocifisso e risusciteremo con Lui, dato che la gioia della Risurrezione ha le sue radici nella Croce.

Maria, Madre nostra, auxilium christianorum, refugium peccatorum, intercedi presso tuo Figlio affinché ci invii lo Spirito Santo. Egli risveglierà nel nostro cuore la decisione di camminare con passo fermo e sicuro, e ci farà sentire nell'intimo dell'anima quell'invito che riempì di pace il martirio di uno dei primi cristiani: Veni ad Patrem (SANT’IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Epistola ad Romanos, 7, 2 [PG 5, 694]), vieni, torna dal Padre, Egli ti aspetta.

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